Precarietà è la parola che esplode come un missile nel nuovo millennio, un millennio che proprio perché nuovo avrebbe dovuto rappresentare una speranza.
Speranza di riscatto, riscatto da un mondo nel quale è difficile esprimersi, per quanto impossibile sia essere se stessi.
È precario l’amore, con le sue mille sfaccettature e il suo unico grande fine.
È precario il lavoro che dà futuro e riscatto sociale.
È precaria la salute, per la quale tantissimi in ogni parte del mondo muoiono, soffrono per malattie che probabilmente sono causate dall’egoismo, che porta a non curarsi di chi ci sta intorno, di non prendere troppo sul serio le circostanze.
Se solo alzassimo lo sguardo, per un momento soltanto, siamo pronti a osservare e successivamente a comprendere che quella precarietà che tanto inquadra il nuovo millennio in realtà è pervasa da una moltitudine di persone che vivono, vivono di qualcosa che possa dare l’impressione per un solo attimo di essere circondati di una speranza intrinseca, desueta.
Solo cosi possiamo ben comprendere che quella precarietà può essere oltraggiata, se solo noi, seduti su di una panchina al parco, con la musica a palla nelle orecchie, per un attimo veniamo colti dall’impressione di dover acquisire una nuova coscienza per capire che se noi siamo qui è per cambiare realmente le cose, cambiare faccia, cambiare tutto quello che si può, perfino allo stremo delle forze; per non morire di rimpianti, per non vivere in modo precario.