Siamo sotto il cielo di Mark Zuckerberg; sotto un cielo da cui non si può, e non si vuole, scappare. Sulla nostra testa gravita il suo prodotto: il social network più diffuso al mondo è sul nostro personal computer, sul nostro smartphone, sul nostro tablet, già sulla nostra smart tv. Chi non è iscritto a Facebook è fuori da questa realtà, è sotto un cielo diverso, e non può rapidamente ed efficacemente informarsi, mantenere contatti con amici lontani, stringere nuove amicizie, gestire impegni universitari o di lavoro. Il social più popolare, com’è noto, si basa sui concetti di apprezzamento e di condivisione: essenzialmente sul concept del like, del mi piace. Se qualcuno usa ancora questo strumento seguendo la connotazione originale, altri attribuiscono invece al like un groviglio di significati che assomiglia a vero e proprio linguaggio, al codice di un nuovo potere, intelligente perché vuole dominare cercando di piacere, e non essendo coercitivo: un friendly power che crea dipendenza, che non ci obbliga al silenzio, che ci invita piuttosto a comunicare, a raccontarci, e a farlo continuamente.
Ma questa «incommensurabile e infinita capacità di connessione, di informazione, e di comunicazione, ci rende davvero soggetti liberi?». Nel saggio Psicopolitica, pubblicato per la prima volta nel 2014, oggi alla quarta edizione, Nottetempo, dell’aprile 2017, il docente di filosofia e di studi culturali all’Università der Künste di Berlino, Byung-Chul Han, muove da questo interrogativo per disegnare l’attuale società del controllo psicopolitico che, seguendo l’accademico: «Non si impone seguendo divieti, e non ci obbliga a stare in silenzio», ma «ci invita di continuo a comunicare, a condividere, a esprimere opinioni e desideri, a raccontare la nostra vita». Si mostra a noi, come dire, con un volto friendly, «mappa la nostra psiche» e la quantifica attraverso i big data, ci stimola di continuo all’uso di dispositivi di automonitoraggio, perché «nel panottico digitale del nuovo millennio – con internet e gli smartphone – non si viene torturati», ma sottoposti al like beating, allo spamming indiscriminato, «si viene twittati, postati» tout court.
La libertà e la comunicazione illimitate si rovesciano nel controllo e sorveglianza totali.
Infatti, Han, autore di diversi saggi sulla globalizzazione e sull’ipercultura, sottolinea il cambio di paradigma che stiamo vivendo, e mostra come la libertà oggi vada incontro a una fatale dialettica che la porta a rovesciarsi in costrizione. Per ridefinire la libertà, secondo il docente originario di Seul, bisogna diventare eretici, rivolgersi alla libera scelta, insomma alla non conformità. «Alla liberazione segue una nuova sottomissione […]. Oggi, non ci riteniamo soggetti sottomessi, ma progetti liberi, che delineano e reinventano se stessi in modo sempre nuovo». […] Eppure disturbi psichici come depressione e burnout sono espressione di una profonda crisi di libertà […]. Il neoliberalismo – precisa Byung-Chul Han – è un sistema molto efficace nello sfruttare la libertà, intelligente perfino: viene sfruttato tutto ciò che rientra nelle pratiche e nelle forme espressive della libertà, come l’emozione, il gioco e la comunicazione. […] La rete digitale fu salutata come un medium di libertà illimitata». Difatti, il primo claim della Microsoft è stato Where do you want to go today?, ma secondo il filosofo: «La libertà e la comunicazione illimitate si rovesciano nel controllo e sorveglianza totali. Anche i social media assomigliano sempre più a panottici digitali, che sorvegliano lo spazio sociale e lo sfruttano senza pietà».
Ci avviamo verso l’era della psicopolitica digitale
Oggi mostriamo quindi una certa bravura nel denudarci senza obbligazioni, a immettere volontariamente in rete tutti i dati e le informazioni possibili su noi stessi, senza sapere chi sa cosa su di noi e sulla nostra vita, quando e in quale circostanza l’ha saputo. «Questa impossibilità di controllo rappresenta una crisi della libertà da non sottovalutare», seguendo Han. «Internet è un collettore delle frustrazioni di milioni di persone», scrive lo scrittore Bruno Gambarotta. «Ci avviamo – prosegue Han – verso l’era della psicopolitica digitale, che passa dalla sorveglianza passiva al controllo attivo e getta, così, in un’ulteriore crisi della libertà […]. I big data sono uno strumento psicopolitico estremamente efficace, che permette di estrarre un sapere sconfinato sulle dinamiche della comunicazione sociale. Questo sapere è un sapere del dominio […]. Ogni dispositivo, ogni tecnica di dominio produce oggetti devozionali, che vengono utilizzati per sottomettere». L’autore di La società della stanchezza (2012) e di Eros in agonia (2013) sottolinea anche che devoto significa sottomesso, e conclude che «lo smartphone è l’oggetto devozionale per eccellenza del digitale». «Come strumento di soggettivazione funziona come il rosario», rileva, «entrambi servono alla sorveglianza e al controllo del singolo su se stesso. Delegando la sorveglianza a ogni individuo, il dominio aumenta la propria efficacia. Il like è l’amen digitale. Mentre clicchiamo like, ci sottoponiamo al rapporto di dominio. Lo smartphone non è solo uno strumento di sorveglianza, ma anche un confessionale mobile», e Facebook sarebbe la chiesa, la sinagoga globale del digitale.
In conclusione, il segno del potere intelligente, «dall’aspetto liberale», per dirla con il professore di Seul, è il like: «Mentre consumiamo e comunichiamo, anzi mentre clicchiamo like ci sottomettiamo a un rapporto di dominio. Il neoliberalismo – precisa il filosofo sudcoreano – è il capitalismo del like». E allora il capitalismo del like dovrà ineluttabilmente essere “riaccompagnato” dall’avvertenza formulata dall’artista statunitense neoconcettuale Jenny Holzer: «Protect me from what I want».
Valeria Gennaro