Per essere davvero up to date bisognerebbe smetterla di cercare solo nelle grandi capitali della moda di New York, Londra, Parigi e Milano; mettersi al passo con i tempi che stanno cambiando, rompere “le tradizioni” proprio nel nome della moda e osservare, con occhio ammiratore, i nuovi stili, che diversi fashion designer che vivono e lavorano fuori dai circuiti abituali, stanno proponendo. È la scommessa della giornalista francese Lydia kali che nel documentario Extreme Fashionistas racconta una nuova generazione di stilisti che presenta inediti e insoliti concetti di stile dai paesi della Birmania o della Botswana, tra gli altri, e che potrebbe, a stretto giro, non rappresentare solo un fenomeno circoscritto.
Extreme Fashionistas offre un racconto inedito sulle vite dei nuovi designer
Seguendo Lydia Kali è importante esplorare le tendenze fashion che spesso vengono invece ignorate dal principale e costante flusso mediatico. La giornalista è interessata ad indagare come la moda sta cambiando e si sta sviluppando in paesi e luoghi in continuo aggiornamento e che «si stanno rimettendo al passo». Ha compreso che un simile lavoro comporta anche una rottura delle forti tradizioni, nel nome della moda. Anche la serie a puntate prodotta da Edithparis spiega come l’incessante ricerca di novità da parte del mercato stia portando a guardare con attenzione a questi nuovi stili. Extreme Fashionistas offre un racconto inedito sulle vite di questi nuovi designer: dalle Pvc jackets di una comunità buddista e punk di Burma, alle hidjabistas (appassionate di moda – blogger ndr ) di Algeri»; si tratta dunque di ascoltare e interpretare i “misteri” che si celano dietro a questi nuovi stili, tendenze fashion e modi di comunicare di una narrazione che arriva da lontano: dalla Birmania, dall’Algeria, dall’America del Nord e, talvolta, dal Pakistan.
Leggendo il documentario della Kali si può apprezzare la sua passione per un concetto di moda non inteso nel modo convenzionale, nel modo in cui la immaginiamo noi. La reporter piuttosto raggiunge posti e paesi che non si immagina possano avere a che fare con la moda, spesso persino coinvolti in conflitti, con tradizioni profonde e rigide pratiche religiose. E ciò nonostante, qui i giovani stilisti che incontra, influenzati dal mondo intorno a loro, stanno rompendo gli schemi in termini di fashion style. La giornalista si è fermata prima a Burma, una nazione buddista del Sud-est asiatico, lì ha incontrato tre fashion designer che stanno acquistando fama nei loro paesi, alcuni di loro formati negli Stati Uniti, che hanno avvertito la necessità di ritornare e di apportare dei cambiamenti agli stili tradizionali di Burma. Steven Oo, ad esempio, è il primo che nel suo paese ha potuto debuttare con una completa collezione da uomo, con la sua azienda 00:55. È quanto riempie di orgoglio “UC Berkeley graduate”, ed è una vera rivoluzione se si pensa che molta gente nel suo paese indossa il sarong che è un largo pezzo di cotone o seta, drappeggiato intorno alla vita e indossato come una gonna da uomini e donne in molte zone dell’Asia del Sud, del Sud-Est e dell’Est, nel Corno d’Africa, e in alcune isole del Pacifico.
La realizzazione del documentario ha trascinato la Kali in luoghi come la Botswana turca, l’Ucraina e il Kazakistan, senza seguire un piano prefissato, o andar via prima che tutto il mood underground venisse esplorato. «Il gioco sta cambiando – spiega Lydia kali – e nuovi centri della moda stanno saltando fuori in giro per il mondo: Rangoon, Algeri,Haiti, e talvolta Karachi! Il peso della tradizione, povertà e religione ha suggerito alle più giovani generazioni di reinventare lo stile».
Valeria Gennaro