Articolo di: Gabriele Vinciguerra

15 ore per attraversare parte dell’Italia, la Slovenia e tutta l’Ungheria per essere lì a Záhony ultimo avamposto dell’Unione Europea a 6 km da “Čop, ”confine Ucraino”, collegato con la vita attraverso lo snodo ferroviario di Záhony.

photo ©gabrielevinciguerra

Sono le 19,30, buio fondo, luci giallo ocra lungo il ciglio della strada creano insieme al silenzio una strana atmosfera quasi surreale. Ci dirigiamo verso la stazione e prendiamo subito contatto con alcuni rappresentanti del Cesvi: organizzazione umanitaria italiana presente in 23 Paesi fondata a Bergamo nel 1985.

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Qui conosciamo Alice e Thomas i quali ci accompagnano presso la struttura dove avremmo dovuto consegnare gli aiuti umanitari portati dall’Italia. E successivamente presso la scuola divenuta Centro di raccolta, dove donne, bambini e anziani possono riposare in attesa di essere smistati in altre città dell’Ungheria o in altri Paesi tramite Ong presenti sul territorio.

Dalle autorità ungheresi è emerso che dall’inizio del conflitto più di 150 mila profughi sono entrati in Ungheria attraverso la stazione di Záhony, cittadina di soli 4 mila abitanti priva di ogni capacità contenitiva che per la gestione di un flusso così importante, la nostra presenza era indispensabile”, dichiara il Vicedirettore del Cesvi Roberto Vignola.

In prossimità della Stazione Ferroviaria il Cesvi ha allestito una tensostruttura capace di accogliere fino a 10.000 profughi al giorno dando loro riposo, ristoro e consulenza legale sulla protezione cui hanno diritto.

All’interno della tenda possono collegarsi con i cellulari alla rete Wifi, ricaricare il telefono ed il computer per poter comunicare con il loro cari.

Come da accordi, la mattina successiva scarichiamo i beni di prima necessità per poi andare presso il Centro di raccolta per capire come comportarci al fine di poter portare in Italia quante più vite possibili.

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Entrati nella scuola vediamo due bambine sedute a ginocchioni che rovistano tra gli scatoloni pieni di vestiti.

Nonostante i sorrisi, i loro sguardi non mentono nel far trasparire quello che fino a poche ore prima avevano vissuto. E che per fortuna non dovranno più vivere.

Trovarsi in quel posto è stato come essere catapultati in una dimensione estranea a noi densa di paura, terrore, sguardi pieni di tristezza e di chissà quali speranze.

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Mamme, bambini raccolti in una stretta di dolore che per fortuna loro questa ingiustizia era cessata. Che cosa hanno visto i loro occhi?

Difficile a dirsi e difficile da percepire in seconda persona tutta la sofferenza di chi è stato vittima di una condanna di cui non ne aveva colpa. Lasciare tutto per cosa? Lasciare chi, per cosa?

Ancora una volta il tempo invece di insegnare, ci ricorda di quanto sia grande la cattiveria e l’egoismo umano in tutte le sue forme.

Torniamo in stazione perché stava per arrivare il treno da Čop. La polizia ed i doganieri si schierano come se dovessero trovare non so chi sul treno della disperazione…. Bambini, persone anziane, mamme con bagagli raccolti in extremis fatti di valigioni strapieni che a stento riuscivano a trascinare sui binari, borse di plastica e cartoni.

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Ad un certo punto nel vedere questo serpente umano sulla banchina della stazione, mi colpisce una ragazza, giovane, con in braccio un cucciolo di gattino bianco, uno scatolone come valigia e sulle spalle uno zainetto dal quale spicca la testa di un cavalluccio.

Vengo a sapere che è scappata dai bombardamenti di Mariupol. Lascia il suo cucciolo di bambino di tre anni prigioniero sotto le macerie di un bunker insieme ad altri… Il suo sguardo era perso nell’aria. I suoi pensieri?

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Mi si stringe il cuore, e da genitore non oso pensare il peso che deve sopportare di fronte ad una scelta senza possibilità. Oggi lei è salva come altri 14 bambini e 7 mamme che siamo riusciti a portare in salvo, grazie alla ONG: Casa del Padre di Milano con la quale ho partecipato a questa missione.

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Ringrazio i miei compagni di viaggio: Riccardo Ferraresi, Christian Bernardo, Andrea Bizzarri per aver condiviso questa esperienza che mi servirà da monito per tutta la vita nel ricordarmi quello che non andrebbe mai fatto e che nessun dovrebbe mai vivere in nessuna parte del mondo.

Dovremmo vergognarci di tutto questo, senza mai assecondare niente in tutte le sue forme e tutto ciò che in qualche modo possa ledere la dignità e la libertà di tutti gli esseri umani.

di Gabriele Vinciguerra
foto di Gabriele Vinciguerra

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Gabriele Vinciguerra
L’obbiettivo del fashion photographer Gabriele Vinciguerra, è quello di emozionare! Eclettico nell’interpretazione delle esigenze del cliente, attraverso immagini artistiche, accattivanti dall'identity univoca. L’alta moda è il suo focus. Un mondo irrinunciabile, un’ossessione perseverante soddisfatta solo quando fotografa. Le capacità tecniche sono importanti. Tuttavia, l’anima, l’intensità e la sensibilità che ha nel saper cogliere ciò che inquadra con la macchina fotografica, lo rendono diverso. “La fotografia non è un lavoro, è una necessità intrinseca della sua anima. Una maledizione e una fortuna che rendono unica la sua espressione artistica

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