Articolo di: Gabriele Vinciguerra

Tu che sei onda
Non ti conosco,
ma so che c’è un posto, da qualche parte nel mondo,
dove vai quando tutto si fa troppo.
Un posto che non giudica.
Che non spiega.
Che non pretende.
So che ha il suono del mare.
E la pelle ruvida di sale.

Ti ho visto, sai? Nel buio prima dell’alba, quando ti infili la muta con mani stanche e occhi ancora chiusi.
Ti ho visto camminare in silenzio verso l’acqua,
come chi va incontro a qualcosa di sacro.
Non parli.
Non cerchi.
Solo… vai.
E lì, nel gesto antico di entrare, sei già tornato a casa.

Il surf non è per chi ha bisogno di risposte.
È per chi ha il coraggio di restare nella domanda.
Per chi sa che le onde arrivano quando vogliono.
E che spesso non arrivano affatto.
Ma tu aspetti lo stesso.
Non come chi spera.
Come chi sa.
Perché l’oceano, anche quando tace,
ti ascolta.

Tu che sei surfista, 
hai imparato a vivere nella fragilità.
A cercare equilibrio dove non esiste terra.
A stare in piedi nell’instabilità, 
e a cadere senza odiarti per questo.
Hai imparato a perderti, 
non per disperarti,
 ma per ritrovarti nuovo.
Più vero.

Più intero.

So che il mare ti ha fatto piangere.
Ma non ti ha mai umiliato.
Ti ha svuotato, sì.
Ti ha tolto ogni certezza.
Ti ha lasciato nudo, vulnerabile, piccolo. 
E proprio lì, 
ti ha mostrato chi sei.
Tu sei quello che resta quando il rumore finisce.
Sei quella quiete dopo la caduta.
Quella gratitudine che sale alla gola quando ti accorgi che stai respirando.
Ancora.

So anche che ci sono giorni in cui vorresti restare a riva.
In cui non hai voglia di cercarla, l’onda.
Ma poi… qualcosa ti chiama.
E tu torni.
Non sai perché.
Non serve sapere.
Il mare ti chiama per nome.
E tu rispondi.
Non come un eroe.
Come un figlio.

Tu che sei onda,
 non stai cercando gloria.
Stai cercando te.
E a volte ti trovi in quell’istante sottile 
in cui la tavola taglia l’acqua,
 il vento ti sfiora la pelle, e tutto il mondo si dissolve.
Non dura. Mai.
Ma è abbastanza.
È sempre abbastanza.

Tu non cavalchi l’onda.
La diventi.
Per questo continui.
Per questo torni.
Per questo ami, anche quando fa male.
Perché lì, nel mezzo del blu,
in quell’istante che nessuno vede…
sei finalmente intero.

E libero.

E vero.

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra (Laurea in psicologia), lavora sul confine tra visione e coscienza. È artista visivo e psicologico, ma prima ancora è un osservatore radicale dell’essere umano. Il suo sguardo non cerca l’effetto, cerca il punto in cui qualcosa accade davvero. Dove una persona smette di mostrarsi e inizia, anche solo per un istante, a rivelarsi. La moda è uno dei linguaggi che attraversa da anni. Non come superficie, ma come spazio identitario, luogo simbolico in cui corpo, storia e appartenenza si incontrano. Per lui l’estetica non è ornamento, è posizione. È una presa di responsabilità sul modo in cui scegliamo di apparire, e quindi di esistere. La formazione in Psicologia, con un’attenzione particolare alla dimensione sociale e ai processi evolutivi dell’individuo, non è un capitolo a parte. È la lente che orienta tutto il suo lavoro. Influenza il modo in cui guarda, ascolta, costruisce senso. Ogni progetto nasce da lì, dal tentativo di restituire complessità senza semplificazioni, profondità senza compiacimento. Accanto alle immagini ci sono le parole. Non come didascalia, ma come strumento di scavo. Le usa con precisione, perché sa che il linguaggio può fare danni o aprire spazi. Quando immagine e parola si incontrano, per lui, non devono spiegare. Devono risuonare. Il suo lavoro, come Direttore di Alpi Fashion Magazine, è questo: tenere aperto uno spazio editoriale in cui cultura, moda e psicologia non si sovrappongono, ma dialogano. Un luogo che non rassicura, ma accompagna. Un invito a guardare meglio, e forse anche a guardarsi. Non per tutti. Ma per chi è disposto a restare.

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