Roberto Vecchioni al Cinema-Teatro Lovaglio di Venosa per presentare uno dei suoi ultimi romanzi “Il Mercante di Luce” (edito Einaudi, 2014). La presenza del cantautore milanese ha impreziosito il Certamen Horatianum, l’agorà poetica fiore all’occhiello dell’I.I.S. “Quinto Orazio Flacco” che da ben 31 anni pone al centro dell’attenzione un confronto costruttivo ed un arricchimento culturale per gli studenti dei licei classici, e che da alcuni anni ha aperto le porte anche ai ragazzi provenienti da istituti ad indirizzo scientifico ed artistico sia in Italia che all’estero, diventando sempre più un’occasione di incontro multiculturale.

Samarcanda” e “Chiamami ancora amore”, la canzone con cui il cantautore ha trionfato nel 2011 al Festival di Sanremo, hanno fatto da cornice di apertura e chiusura all’incontro che ha infervorato gli animi del pubblico. I ragazzi del liceo musicale di Venosa si sono esibiti dinanzi agli occhi entusiasti del cantautore, che li ha ringraziati con un caloroso abbraccio. Il tutto suggellato dal fluire di giovani e meno giovani che si sono avvicinati muniti della copia del libro per ottenere un saluto e una dedica autografata.

All’indomani dello straordinario incontro che ha catalizzato l’interesse trasversale di più generazioni a confronto,  la dirigente scolastica Mimma Carlomagno dell’I.S.S. Orazio Flacco di Venosa ha così commentato “Il professore Vecchioni ha centrato dei punti essenziali: ha parlato di libertà. Si può essere liberi solo se si è padroni di se stessi e se si riesce a gestire la propria personalità. Libertà è consapevolezza di stare al mondo e di poter contribuire al miglioramento della società. Questo incontro è un modo per avvicinarsi ai giovani e far capire loro che la cultura classica è viva. L’intenzione per ii prossimo anno è di continuare su questo filone perché il potere della parola ben detta ammalia sempre. Come sosteneva Platone parlare scorrettamente fa male all’anima”.

Firma autoriale ed interprete di alcuni dei capolavori della musica italiana, come “Luci a San Siro”, “Sogna, ragazzo, sogna”, “Voglio una donna”, “Ho conosciuto il dolore”, “Figlio, figlio, figlio”, “Le lettere d’amore”, Vecchioni si è presentato ad una platea attenta ed interessata nella duplice veste di scrittore e narratore. Con una intensa vena didattica ha accompagnato i ragazzi, guidati dalla docente del liceo classico di Venosa, Pinella Falcone, verso un’arguta ed accorata riflessione sul binomio “vita-morte“, “felicità-dolore” e sulla audace libertà; quella che sfida tutto, ma teme la morte. Il romanzo si sviluppa lungo due binari: l’uomo che odiava la vita e l’altro che ha paura della morte; due casi-limite che si incontrano e che rappresentano il duplice volto dell’ umanità, quella scolorita, che non ha suoni, che è finta; e poi c’è l’umanità vera, quella che ascolta la vita fino in fondo, e riesce trarre dalla notte, dal buio del suo dolore, una luce autentica.

La grande sfida su cui si impianta la poesia, la bellezza è il “dramma” della condizione tragica, proprio quando il destino (e non il caso fortuito) incombe è il coraggio delle idee. “Il destino scorre parallelamente alla nostra vita; ogni tanto si fa vedere e ci chiediamo perché sia accaduto proprio a me. In realtà ti accompagna fin dalla nascita” afferma Vecchioni. Ed è questo il significato profondo del “tragico” anche oggi: nulla accade per caso, ma l’uomo costruisce ciò che già appartiene a se stesso, che è connaturato nella sua anima. Credere nel destino vuol dire credere nell’anima e ascoltare la sua voce. Anche questo un atto di fede, inspiegabile, come lo è l’arte e la poesia, che tendono ad una impegnativa ricerca del bello. “La logica e la scienza spiegano tante cose. La scienza non deve raggiungere la perfezione, ma deve essere una dottrina ad eliminazione degli errori” aggiunge il cantautore.

Grazie ai miti, alle sue tragedie e alla commistione tra riso e pianto che la successiva drammaturgia ha tramandato fino ad oggi, emerge l’intensità della parola (in greco “logos” in latino “verbum”) che può affiorare, autentica, solo se si scava nella profondità della sua etimologia e nomenclatura. “Le parole non fluiscono in modo caotico, ma hanno sempre un nesso casuale. Il verbo “dire” deriva proprio dal greco “lego” (λέγω) che significa “raccogliere, collegare” rammenta Vecchioni.

“Bisogna dare il giusto peso all’utilizzo delle parole e stare attenti al loro significato e alla loro radice. I Greci e i latini le hanno costruite così bene che si sono tramandate in modo sostanzialmente uguale dal punto di vista morfo-sintattico all’italiano moderno”.” ribadisce con veemenza l’artista.

Il dibattito si è poi infittito grazie alle sagaci domande degli studenti certamenensi e del liceo di Venosa  sulla frattura tra il mondo classico e quello moderno, quella che Vecchioni non vuole definire come una vera e propria rottura con il passato ma piuttosto come un passaggio storico da un’età all’altra; un solco tracciato dall’evoluzione secolarizzata della religione, della fede e del Cristianesimo, da un’umanità che può fluttuare liberamente tra Sacro e Profano, senza che questi due poli si annullino a vicenda. Eppure ogni tanto è importante “chiudere gli occhi e trascorrere una giornata intera fuori dal profano per riappropriarsi della propria vita e del proprio destino” e quindi abbracciare quel senso onirico che conferisce sacralità all’esistenza umana e in cui tutto ciò che è immaginazione è vero, come quando si assiste allo spettacolo e ci si immedesima. Ecco perché “il teatro è sacro“, un momento di catarsi, ossia di purificazione del profano.

La letteratura manzoniana, per esempio, è la dimostrazione di quanto la tragedia moderna e il sentimento del Sacro e del Profano di cui è imperniata, pur con le dovute differenze, non siano discontinui rispetto al “tragico” greco e di come l’eredità classica abbia influenzato la cultura europea dei secoli successivi.

Non dobbiamo guardare al classico come l’antireligioso, ma come una trasposizione illuminista e laica. In questa trasposizione può poi subentrare la fede che nulla può togliere alla classicità. Nel romanzo ci sono riflessioni che in realtà ho sempre fatto sul destino, la morte e l’amore, sull’origine del binario tristezza/forza, rimpianto/riso” afferma Vecchioni.

La trama si focalizza sulla storia di un padre, docente di Letteratura greca cerca di raccontare al figlio, affetto da una patologia che scandisce troppo velocemente lo scorrere del tempo e lo condanna ad una prematura senilità, qual è il significato autentico della vita, che cosa resta dell’uomo oltre la morte che non è mai la fine di tutto, e che cosa di una umanità perduta vale la pena di raccogliere e tramandare ai posteri.

Da un lato, c’è il senso di colpa del padre che si sente impotente di fronte alla finitudine umana e ai limiti invalicabili di una condizione che è destinata alla fine; dall’altro lato c’è il figlio che va oltre il dolore, la Fine e la Morte. È un po’ come l’esempio trasmesso dal mito di Orfeo: la sfida contro il male che si combatte con la poesia”  rivela l’autore del libro “Il mercante di Luce”.

Questo è il significato autentico di una figura paterna che in realtà è meno fragile di quanto si possa pensare perché attraverso i miti della classicità, il cui racconto riflette il pensiero dei suoi autori più antichi, (Omero, Saffo, Anacreonte, Sofocle, Euripide) da cui è possibile estrarre un grande insegnamento di vita: da un lato il coraggio della libertà e della conquista di una irremovibile speranza: poter sconfiggere l’omologazione e la stupidità, sia quella cattedratica ed indottrinata che quella scandita dal vuoto di pensiero e dalla mancata sete di lettura. Una considerazione che può essere trasposta alla società contemporanea improntata alla facile comunicazione e all’identificazione di massa. “Il problema per cui una parte dei giovani non è più attratta dalla cultura classica deriva dal cambiamento di paradigma. Fin da piccoli si è abituati a stare di fronte ad uno schermo e le informazioni arrivano come un flusso passivo. La lettura invece è attiva, ma è anche più faticosa per chi non vi è abituato” conclude Roberto Vecchioni.

Marianna Gianna Ferrenti

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Marianna Gianna Ferrenti
Sono una giornalista pubblicista lucana. Dopo alcune esperienze sul territorio, ho allargato gli orizzonti, affacciandomi nel 2012 al mondo del social journalism. Laureata magistrale in Scienze filosofiche e della comunicazione, dopo un corso di Alta Formazione in Graphic Design ed Editoria digitale, finanziato dal Fondo Sociale Europeo, ho arricchito il mio background con competenze tecniche nell'ambito della scrittura digitale

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