Quando qualcuno mi chiede come diventare Fashion Blogger di professione io per prima cosa arriccio il naso poi gli consiglio subito di cambiare strada.
Perché se la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”, stilata nel 1948 sancisce l’abolizione ufficiale di qualsiasi forma di schiavitù, il movimento abolizionista non ha ancora contagiato oggi innumerevoli aziende, convinte di poter disporre del lavoro delle giovani leve, senza nulla dovere in cambio, forti dell’eccellenza del proprio nome. Solo che nel 2014 i “nuovi schiavi” sono consapevoli e accettano lo sfruttamento abbagliati dall’offerta di un bene come compenso del proprio operato.
Quello delle Fashion Blogger è un fenomeno che ha saputo spaccare il mercato a colpi di outfit. Nel 2007 fare il/la Fashion Blogger poteva essere una nuova strada da percorrere in termini professionali, un nuovo veicolo di comunicazione, insomma l’obiettivo c’era e si poteva ancora toccare.
Nel 2014 invece Fashion Blogger sembra essere un’etichetta capace di rappresentare una categoria in grado di trasmettere alle aziende la semplice equazione: product placement = pubblicazione o per meglio dirla in termini aritmetici più forbiti, prodotto : fashion blogger = notizia : giornalista (Non consideriamo per il momento il fatto che il giornalista non vedrà a fine mese solo notizie in busta paga. Si spera). Il risultato rimane sempre quello di una pubblicazione capace di veicolare la presenza di un marchio senza sforzi economici.
Quasi un’epidemia.
Nasco anche io come Fashion Blogger, non rinnego le mie origini e mi costa questo insulto alla categoria ma è un dato di fatto che oggi il mondo delle Fashion Blogger è cambiato.
In peggio.
Il fenomeno Chiara Ferragni ha aperto le porte alla concezione che il web è il primo canale per la comunicazione attraverso nuovi metodi di approccio. Benissimo. Ma d’altro canto ha anche creato la falsa aspettativa di facili guadagni nella testa di una folla di adolescenti che si riducono a lavorare gratuitamente al solo scopo di possedere la clutch dei sogni. Spesso elemosinandola con la promessa di una recensione.
Cafonissimo e quantomeno triste.
Girare per gli show room selezionando i prodotti più in linea con le aspettative dei consumatori, comporre gli outfit che sappiano rappresentare il trend per i target di riferimento, realizzare servizi fotografici, scrivere testi di accompagnamento, coordinare una corretta attività Seo e Sem sono lavori a tempo pieno che non possono e non devono prescindere da un conoscenza, quanto meno basilare, delle teorie della comunicazione e del marketing. Mi stupisco ogni volta vedendo aziende pronte a gettare la loro immagine in pasto a ragazze diversissime tra loro, spesso giovanissime, fregandosene di dare un taglio specifico alla comunicazione. Vedo immagini aziendali logorate dalla mancanza di analisi del sentiment provocato da queste attività scriteriate, pubblicazioni piene di commenti negativi o peggio, commenti finalizzati alla mera pubblicizzazione del blogger commentante, sintomo che il messaggio non solo non è stato percepito ma è stato addirittura ignorato.
“Bene o male purché se ne parli” parafrasando il celebre aforisma de “Il ritratto di Dorian Gray”, Oscar Wilde non sapeva che 114 anni dopo la sua scomparsa sarebbe diventato il Guru della comunicazione 2.0, requiem per la web reputation.
Povera reputation, e pensare che sono stati scritti interi saggi per sensibilizzare il popolo della rete verso questa arguta pratica mentre oggi, a colpi di cambio merce, rischiamo di sputtanare (passatemi il termine) ben 3 categorie in solo colpo (aziende, Blogger amatoriali e Blogger professionisti ndr). L’approccio di questo 2014 mette i brividi; supportate da una poco favorevole congiuntura economica le aziende si ritrovano ad elargire borsette e T-shirt in cambio di una pubblicazione sui blog. Il rischio è quello di ritrovarci sommersi da post scritti in maniera pressoché identica, con testi spesso copia dei comunicati stampa.
Una noia incredibile.
Dall’altra parte si vedono Blogger inesperte avanzare contro offerte economiche che valorizzano post e tweet come fossero banane al mercato. Senza avere bene in chiaro cosa va valorizzato e come.
D’accordo che nel 2014 l’unica possibilità per emergere è crearsi un lavoro e poi renderlo remunerativo, ma con un po’ di grazia per Dio.
Il know how nell’ambito commerciale è indispensabile per l’ottenimento di una remunerazione e allora via libera a colpi duri di offerte e controfferte che cercano di risollevare le sorti del Blogger, quello vero, quello con un background professionale sviluppato nei settori della comunicazione a forza di legnate sui reni, quello che rincorre l’obiettivo professionale del 2007 portandosi addosso tutta la mia stima, soprattutto se il commerciale se lo fa da solo.
Autoimmolarsi sull’altare della sensibilizzazione all’aspetto economico è una mossa difficile spinta da un disperato quanto comprensibile desiderio di vedere valorizzato il proprio lavoro. Perché di questo si tratta. E non può essere retribuito solo in borsette. Né in scarpe, perché poi, a conti fatti, quando andiamo a pagare le bollette, l’impiegato della posta potrebbe non essere interessato alle nostre decolltè di pelle di unicorno albino con soletto anatomico in pelo di Tamandua Messicano intrecciata a mano dagli aborigeni dell’Amazzonia. Tanto per dire.
Ma allora a questo punto in che modo è possibile porre fine allo scandaloso mito della Fashion Blogger a tutti i costi e del lavoro non retribuito?
Differenziando.
Ben vengano le Fashion Blogger amatoriali, quelle che fanno scouting e reperiscono in rete materiale per le loro pubblicazioni senza chiedere compensi in cambio, consapevoli di operare spinte dalla passione e non dalla certezza di un valore professionale (che anche se c’è, per coerenza, non dovrebbe essere ostentato).
Ben vengano i prodotti tester in previsione di una pubblicazione, che siano gentili omaggi o mera conto visione.
Ben vengano anche i Blogger professionisti, quelli che costituiscono gruppi, si dedicano alla pianificazione di attività di comunicazione, alle strategie di marketing, allo scouting (non n’do cojo cojo, il rischio dell’essere riconosciuti come marchettari è dietro l’angolo), all’analisi, al monitoraggio, all’indicizzazione, alla stesura di articoli in forma redazionale.
Ma soprattutto ben vengano le aziende e gli uffici stampa che, con consapevolezza dei propri obiettivi, sanno scegliere ciò che è meglio per l’immagine aziendale, il testimonial e il blog che sappiano aumentare la brand awareness tenendo conto della web reputation, la strategia che sappia fidelizzare per soddisfazione delle aspettative e non solo per uno spam ben operato. Altrimenti come la mettiamo poi, in termini di ROI?
Quello che vorrei è che fosse più chiaro il messaggio che non basta essere presenti in rete per ottenere un ritorno dell’investimento ma bisogna saper scegliere su quali canali è meglio esserci. E pagarli, quei canali. Perché il lavoro, di qualsiasi tipo esso sia e specialmente se richiesto da un Committente, va retribuito. Nel rispetto delle persone che, con passione e professionalità svolgono quel lavoro dedicandogli tempo e fatiche, innamorandosi dei progetti e presentando piani strutturati e non un post e poi tanti saluti. Sono stanca di vedere schiere di personaggi, colleghi dall’indubbia capacità che si affannano nell’upload di post con la stessa dedizione degli operai cinesi rinchiusi nei sottoscala di Paolo Sarpi, per poi ottenere come compenso un cappellino ed una chiavetta USB.
Di questo passo la comunicazione aziendale sarà uno strumento alla portata di tutti, anche mia mamma, che ha difficoltà a capire la differenza tra Google e Mozilla potrà essere definita Social Media Manager perché pubblica su Facebook, ed essere contattata per il supporto alle Start Up. Il lavoro verrà compensato con prodotti di prima (si fa per dire) necessità e si tornerà al baratto. Certo, se questa formula ci permettesse di pagare anche Imu,Tasi e spesa all’Esselunga con un paio di calzini firmati l’idea potrebbe non essere poi tanto male.
Elena Palieri
Post scriptum: il discorso della non retribuzione vale purtroppo per tantissime altre categorie professionali, dentro e fuori dal web. Una mano sulla coscienza sarebbe quanto meno opportuna (ndr).