tolleranza

Articolo di: Gabriele Vinciguerra

La tolleranza è uno dei pilastri su cui l’Occidente ha costruito la propria identità morale. Ma ogni pilastro, se caricato oltre il limite, crolla. Il problema non è la tolleranza in sé, ma l’idea che debba essere illimitata, acritica, priva di confini. È qui che il principio si rovescia nel suo contrario.

Karl Popper lo aveva chiarito senza ambiguità ne La società aperta e i suoi nemici. Una società che tollera l’intolleranza senza difendersi finisce per essere distrutta da essa. Non è una posizione ideologica, è una constatazione storica e psicologica. L’intolleranza non convive, occupa. Non dialoga, sostituisce. Non chiede spazio, lo prende.

Negli ultimi anni questo nodo è tornato centrale anche in Italia. Non solo sul piano politico, ma culturale, religioso e identitario. Il dibattito però si inceppa subito. Appena si prova ad analizzare il problema, chi parla viene etichettato. Di destra, di sinistra, reazionario, progressista. Come se il pensiero critico fosse diventato una militanza implicita.

Religione, tolleranza e asimmetria culturale

Il punto più delicato riguarda il rapporto tra tolleranza e religione. Non tutte le religioni, né tutte le interpretazioni religiose, hanno lo stesso rapporto con il pluralismo, la libertà individuale e i diritti civili. Ignorare questa asimmetria in nome di un multiculturalismo indistinto non è inclusione, è rimozione della realtà.

Studi del Pew Research Center mostrano come in molti Paesi a maggioranza islamica il sostegno a leggi religiose vincolanti, come la sharia, resti elevato, inclusa la limitazione della libertà di espressione, di orientamento sessuale e di apostasia. Questo non significa demonizzare una fede, ma riconoscere che alcune visioni del mondo sono strutturalmente incompatibili con una società laica e pluralista se applicate senza mediazioni.

Allo stesso tempo, anche il cristianesimo, quando si è fuso con il potere politico, ha prodotto sistemi intolleranti. La differenza, in Europa, è che il processo di secolarizzazione ha progressivamente separato fede e diritto. Questo passaggio non è universale né scontato.

La tolleranza diventa problematica quando è unilaterale. Quando una società aperta accetta al proprio interno visioni che non riconoscono quella stessa apertura come valore. È un cortocircuito logico prima ancora che politico.

Psicologia dell’intolleranza tollerata

Dal punto di vista psicologico il meccanismo è noto. L’intollerante interpreta la tolleranza come debolezza normativa. Non come rispetto, ma come assenza di limiti. In psicologia sociale questo fenomeno è vicino alla teoria delle norme sociali implicite. Quando una comunità non sanziona un comportamento, lo legittima.

Così il linguaggio si radicalizza, le posizioni si irrigidiscono, le minoranze interne più fragili diventano bersagli. Donne, persone LGBTQ+, dissidenti, apostati. Non perché la maggioranza lo desideri esplicitamente, ma perché ha smesso di difendere lo spazio comune.

Freedom House documenta da anni come l’erosione delle libertà civili inizi quasi sempre con una normalizzazione del linguaggio intollerante, non con un colpo di stato. Prima si tollera, poi si giustifica, infine si subisce.

Italia, oggi e domani

In Italia il rischio non è un’immediata deriva teocratica o autoritaria. Il rischio è più sottile. È la frammentazione del patto sociale. La rinuncia a dire che alcuni valori non sono negoziabili. La paura di sembrare discriminanti porta a non difendere più nessuno.

Nel lungo periodo questo produce tre conseguenze. La prima è la polarizzazione. Le persone smettono di confrontarsi e iniziano a schierarsi. La seconda è la delegittimazione delle istituzioni, percepite come incapaci di proteggere diritti e regole comuni. La terza è la radicalizzazione speculare, perché ogni vuoto normativo viene riempito da reazioni ugualmente estreme.

La tolleranza, senza confini, non genera pace sociale. Genera conflitto latente.

Perché avere un’opinione è diventato pericoloso

Il punto forse più inquietante è questo. Oggi non è tanto difficile essere intolleranti. È difficile essere lucidi. Chi prova a distinguere tra rispetto delle persone e critica delle idee viene immediatamente collocato in uno schieramento. Come se la complessità fosse sospetta.

Questo accade perché il dibattito pubblico è diventato identitario. Le opinioni non valgono per ciò che dicono, ma per chi sembrano favorire. In questo clima, il silenzio diventa una strategia di sopravvivenza. Ma il silenzio, in una democrazia, è sempre un regalo a chi urla di più.

Tollerare gli intolleranti non è una virtù. È una rinuncia.
Difendere la tolleranza significa scegliere, delimitare, proteggere.
Non tutte le idee meritano lo stesso spazio. Non tutte le visioni sono compatibili con una società libera.

Non dirlo, oggi, sembra moderazione.
Nel tempo, rischia di diventare irresponsabilità.

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra (Laurea in psicologia), lavora sul confine tra visione e coscienza. È artista visivo e psicologico, ma prima ancora è un osservatore radicale dell’essere umano. Il suo sguardo non cerca l’effetto, cerca il punto in cui qualcosa accade davvero. Dove una persona smette di mostrarsi e inizia, anche solo per un istante, a rivelarsi. La moda è uno dei linguaggi che attraversa da anni. Non come superficie, ma come spazio identitario, luogo simbolico in cui corpo, storia e appartenenza si incontrano. Per lui l’estetica non è ornamento, è posizione. È una presa di responsabilità sul modo in cui scegliamo di apparire, e quindi di esistere. La formazione in Psicologia, con un’attenzione particolare alla dimensione sociale e ai processi evolutivi dell’individuo, non è un capitolo a parte. È la lente che orienta tutto il suo lavoro. Influenza il modo in cui guarda, ascolta, costruisce senso. Ogni progetto nasce da lì, dal tentativo di restituire complessità senza semplificazioni, profondità senza compiacimento. Accanto alle immagini ci sono le parole. Non come didascalia, ma come strumento di scavo. Le usa con precisione, perché sa che il linguaggio può fare danni o aprire spazi. Quando immagine e parola si incontrano, per lui, non devono spiegare. Devono risuonare. Il suo lavoro, come Direttore di Alpi Fashion Magazine, è questo: tenere aperto uno spazio editoriale in cui cultura, moda e psicologia non si sovrappongono, ma dialogano. Un luogo che non rassicura, ma accompagna. Un invito a guardare meglio, e forse anche a guardarsi. Non per tutti. Ma per chi è disposto a restare.

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