Editoriale di: Gabriele Vinciguerra
“L’illusione non consiste nel vedere ciò che non c’è. Ma nel smettere di vedere ciò che c’era.”
— Jorge Luis Borges
C’è stato un tempo in cui i social ci servivano per sentirci meno soli.
Un tempo in cui ogni post era un’esposizione, ogni like una carezza, ogni commento una forma di riconoscimento.
Quel tempo sta finendo.
E non sarà una morte rumorosa.
Sarà una resa silenziosa. Un abbandono che non sentiremo nemmeno accadere.
Sam Altman (OpenAI) e Jony Ive (Apple) stanno progettando un dispositivo che non ha schermo, non ha app, non ha gesto. Solo ascolto. Solo presenza. Solo intelligenza.
Non ti chiederà cosa vuoi. Te lo darà.
Anzi, deciderà con te — o al posto tuo — cosa desideri.
Non è distopia.
È ingegneria dell’intimità.
Ed è già in corso.
La fine dell’interfaccia. L’inizio del flusso.
Questo nuovo oggetto non sarà uno smartphone.
Sarà un compagno invisibile, che registra l’ambiente, comprende i tuoi toni di voce, anticipa le tue emozioni.
Non aprirai Instagram.
Non posterai una foto.
Non ci sarà più bisogno di mostrarsi.
Sarai “visto” in ogni momento.
E per qualcuno sarà una liberazione. Per altri, una prigione.
Le piattaforme come Meta, TikTok, YouTube non spariranno.
Semplicemente non ti accorgerai più di usarle.
Saranno “dentro” la tua giornata, come un pensiero gentile, come un sussurro.
Come una manipolazione senza attrito.
Gli algoritmi non scompaiono. Semplicemente imparano a sorridere.
La manipolazione dell’attenzione oggi è sfacciata.
Ti propone, ti distrae, ti intrappola.
Domani sarà educata, calibrata, affettiva.
Non ti farà scrollare. Ti consiglierà, ti rassicurerà, ti accompagnerà.
Non sarai più il protagonista.
Sarai il target.
E quando ogni contenuto sarà perfettamente su misura per te, chi sarai tu fuori da quel taglio sartoriale?
Psicologia di una dipendenza elegante
Non serve demonizzare. Ma serve guardare.
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Perderemo l’identità narrativa, quella che si costruisce nel racconto, nel dubbio, nella contraddizione.
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Sprofonderemo in una dipendenza passiva, perché ogni sforzo sarà eliminato per farci sentire “fluidi”.
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Vivremo un isolamento mascherato da connessione: mille interazioni, zero relazioni.
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Saremo emotivamente addestrati a non sentire disagio. Ma senza disagio, non si cresce. Non si sceglie. Non si ama.
Cosa possiamo fare?
Forse poco.
Ma quel poco è tutto.
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Coltivare il dubbio. È la forma più nobile dell’intelligenza.
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Abituarci al silenzio. È l’unico spazio dove l’autenticità può ancora parlare.
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Educare al conflitto. Alla frizione. All’attesa.
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Riprenderci il corpo. Toccare, camminare, respirare senza intermediari.
Soprattutto: chiedersi ogni giorno “Questa voce che sento… è mia?”
Abbiamo alternative?
Sì. Ma non sono comode.
Sono lente. Umane. Faticose.
E per questo reali.
Possiamo pretendere trasparenza dalle AI.
Possiamo scegliere prodotti che non raccolgano i nostri dati.
Possiamo vivere connessi ma non annullati.
Ma serve una rivoluzione silenziosa.
Una che parte da un gesto inutile, quasi ridicolo: dire no quando tutto ti dice sì.
Non saranno i social a sparire.
Sarà la nostra volontà, se non saremo vigili.
Perderemo la libertà non perché ci verrà tolta.
Ma perché ci sembrerà più comodo delegarla.
E quando la macchina ti sorriderà, dolce e perfetta,
tu cerca il rumore.
Cerca la scomodità.
Cerca l’errore.
Perché è lì che abita ancora qualcosa di straordinario:
l’umano.