Intervista di: Gabriele Vinciguerra
Foto cover: Andrea Del Vecchio
Laddove tutto si assomiglia, lui ha scelto di essere differente.
In un’epoca in cui la musica si è fatta algoritmo, dove le voci si confondono e le emozioni si comprimono in formati da playlist, c’è ancora chi osa essere autentico. Samuele di Nicolò non rincorre il consenso: lo sfida. Non insegue l’approvazione: la trasforma in verità. Le sue canzoni non cercano like, cercano un volto, una ferita, un cuore che sappia riconoscersi in un’altra storia.
E forse non è un caso che sia stato proprio lui ad aprire il concerto di Vasco Rossi. Perché se c’è stato un artista che per primo ha spezzato gli schemi, che ha trasformato le sue crepe in grida generazionali, è stato proprio Vasco: l’anomalia originaria. Il ribelle che ha scritto le regole del rock italiano disobbedendo a tutte le precedenti. Ritrovarsi su quel palco non è stato solo un’opportunità: è stato un segno. Una linea che unisce due traiettorie non convenzionali. Casualità o anticipo di un destino?
In un mondo discografico ormai spesso piatto e ripetitivo, Samuele è la prova che l’autenticità può ancora emozionare. Perché c’è qualcosa che nessun algoritmo potrà mai calcolare: la verità di chi sceglie di essere se stesso, anche quando fa male. E proprio per questo, riesce ancora a farci sentire vivi.
Quando hai sentito l’urlo dello stadio prima ancora di cantare, hai avuto la sensazione di meritartelo… o ti sei chiesto: “E se non fossi abbastanza?”
A dire il vero, no. Non mi sono mai fatto quella domanda. Quando salgo su un palco non penso se me lo merito o no. La musica è sempre stata l’unica lingua che conoscevo per tradurre quello che avevo dentro: pensieri aggrovigliati, dolori antichi, quei mostri che impari a chiamare per nome solo quando li canti. E quindi no, non penso mai “sarò abbastanza?”, penso solo che ho di nuovo un’occasione. L’occasione di raccontarmi. Senza filtri. Di mettermi lì, davanti a chi c’è, e dire: “Questa è la mia verità”.
Cosa continui a nascondere, anche quando sembri totalmente esposto, chitarra al collo e cuore aperto?
Una volta provavo a nascondermi. Cercavo di sembrare perfetto, senza sbavature, tutto ordine e simmetria. Una vetrina di vetro lucido, ma freddo. Lo facevo per paura. Paura che si vedessero le mie fragilità, le crepe. Poi ho capito che erano proprio quelle a creare il ponte tra me e chi mi ascolta. Le fragilità ci umanizzano. Ci mettono in contatto, ci rendono veri. Da quel momento, ho deciso che sul palco non mi sarei più nascosto. Quando ho una chitarra in braccio e un microfono acceso, quella è casa mia. E io, a casa, non mi travesto.
Qual è la verità che continui a scrivere tra le righe, perché detta in faccia ti farebbe troppo male?
Tutto è nato da lì. Da quella sensazione persistente di non essere mai abbastanza. Quel nodo allo stomaco che hai fin da ragazzino, quando stai zitto in fondo alla classe per paura di dire la cosa sbagliata. Ero quel tipo lì. Poi sono arrivate le canzoni prima quelle degli altri, poi le mie e mi hanno dato una voce. La mia. Oggi, quella sensazione c’è ancora. E sì, è presente in tutto quello che scrivo. Ma non la dico mai esplicitamente, non perché faccia male, ma perché è il carburante. La mia fame. È quella voce che mi spinge a crescere, a diventare la versione di me che ancora non sono.
Hai mai pensato che, se arrivasse, il successo potrebbe anche distruggerti? E cosa faresti per restare integro… se si può?
Non ho mai visto lo spettacolo come un mondo in cui restare a vivere. Ci entro e ci esco. Non perché lo disprezzo, ma perché non è quello il mio centro. Il mio centro è la musica, il lavoro, lo studio. È il rispetto. E poi ho le mie radici: una famiglia vera, amici veri, una squadra che prima di essere professionale è umana. Sono loro che mi tengono a terra. E poi c’è il dolore. Quel dolore che ti segna, ti scava dentro, ma che se impari a rispettarlo diventa il tuo scudo. Chi ha guardato in faccia le proprie ferite, difficilmente perde la testa per due applausi in più.
Hai aperto il concerto di Vasco. Ma qual è il palco che, dentro di te, non hai ancora avuto il coraggio di salire?
Quello della gioia. Sì, sembra assurdo, ma è così. Ho sempre parlato dei miei dolori, dei miei lati oscuri. La malinconia è sempre stata la mia lente. Ma dentro di me c’è anche altro: l’ironia, il gioco, la leggerezza. Quella parte l’ho lasciata indietro, forse per paura, forse per abitudine. Ma credo che sia arrivato il momento di darle voce. Di salirci, su quel palco. Di lasciarmi andare. Di ridere, anche. Perché anche quello è vero.
Che ferita non hai mai cantato? E perché non riesci ancora a metterci la voce?
Chi mi conosce dice che non so dove stia il pudore. E forse è vero. Non mi sono mai nascosto quando si è trattato di cantare una ferita. Mai avuto paura di metterla lì, davanti a tutti. Il palco, per me, è questo: un luogo dove la vergogna non esiste. Ci salgo con le mie cicatrici ben in vista. E ci resto così.
Quando la gente applaude… senti che stanno applaudendo te o l’immagine che si sono costruiti di te?
Credo che chi mi segue, chi si ferma ad ascoltare davvero, lo faccia per un motivo semplice: sente che c’è verità. Le mie canzoni raccontano la mia vita così com’è. Senza trucco. Senza trucco davvero. Quando dico “piacere, sono io”, è quello che intendo. E se arriva un applauso, allora sì, credo che sia per la mia verità. Non per un personaggio.
In cosa non credi più, anche se fai finta di crederci per tenere in piedi tutto?
A dire il vero, non ho mai saputo fingere. Non è nelle mie corde. Un tempo non credevo possibile cantare davanti a 30.000 persone. Mi sembrava un sogno troppo lontano. Impossibile, quasi ridicolo. Ma poi è successo. E allora oggi ti dico: credo in tutto. Credo che valga la pena sognare, credere, rischiare. Anche quando tutto ti dice che non ce la farai. Anche quando l’epilogo sembra scritto. Perché no, lo scenario peggiore non è sempre quello più probabile.
Se domani sparissero microfoni, palco e pubblico… chi resterebbe di Samuele?
Un ragazzo con i capelli lunghi, una chitarra in braccio e due occhi aperti sul mondo. Con un foglio bianco tra le mani per provare a capirlo, questo mondo. Per scriverlo, magari. Perché la musica è la mia lingua, e la parlerò comunque. Anche se il palco dovesse spegnersi per sempre.
Se potessi cantare solo un’ultima volta, senza filtri, senza ritorno… a chi la dedicheresti? E perché proprio a lui?
Al mio migliore amico. Se n’è andato due anni fa. Da allora ogni nota, ogni parola, ogni palco è per lui. Nessuno sa quanto darei per fargli ascoltare le mie canzoni, per ridere ancora insieme davanti a un disco. Per sapere se oggi, dopo tutto, sarebbe fiero di me. Se le scelte che ho fatto, gli errori che ho commesso, portano comunque il suo sorriso. Se potessi cantare un’ultima volta, lo farei per lui. Per dirgli: “Eccomi. Questo sono io. Che ne dici, zi?”















Gran bella intervista Gabriele Vinciguerra… Ne ho fatte veramente tante in vita mia e ho sempre sperato in domande interessanti, che scavano e mi permettessero di scavare .. questa la croce e il dono di un artista. Un piacere leggerti…
Gran bella intervista Gabriele Vinciguerra… Ne ho fatte veramente tante in vita mia e ho sempre sperato in domande interessanti, che scavassero e mi permettessero di scavare .. questa la croce e il dono di un artista. Un piacere leggerti…