Editoriale di: Gabriele Vinciguerra
Il Natale non è nato per ferire.
È stato reso così.
In origine era un rito essenziale. Un tempo sospeso dentro l’inverno. Un gesto collettivo per dirsi che, anche nel buio, non si restava soli. Niente performance, niente prove da superare, niente modelli da imitare.
Poi è arrivata la società.
E le persone.
E lo hanno trasformato in qualcos’altro.
Oggi il Natale non accoglie. Valuta.
Non unisce. Seleziona.
Non protegge. Espone.
È diventato una prova di resistenza emotiva mascherata da festa. Un esame silenzioso in cui devi dimostrare di stare bene, di avere abbastanza, di appartenere a qualcosa di presentabile. Chi non ce la fa viene guardato come un errore di sistema. Un disturbo dell’immagine collettiva.
Dicembre non crea il disagio. Lo mette sotto un riflettore.
Tutto ciò che durante l’anno viene tenuto a bada esplode. Solitudini antiche. Famiglie disfunzionali travestite da armonia. Lutti ignorati. Identità che devono ancora una volta comprimersi per non rovinare l’atmosfera. Il dolore non scompare perché è festa. Diventa solo più indecente da mostrare.
La narrazione ufficiale racconta altro.
Sorrisi obbligatori. Tavole piene. Case calde. Regali impilati.
Un immaginario così ripetuto da sembrare naturale. Ma naturale non è.
È propaganda emotiva.
Il Natale, così come viene venduto, non ammette ambivalenze. Non prevede il “sto male”. O partecipi o sei fuori posto. E quando un’emozione diventa un dovere, chi non la prova interiorizza la colpa.
Il denaro è il cuore marcio di tutto questo.
Tutti fanno finta che non c’entri. In realtà decide chi può stare dentro e chi resta ai margini.
Il regalo non è più un gesto simbolico. È una misura di valore.
La cena non è più un incontro. È un bilancio.
La presenza diventa una spesa.
Chi non può permettersi il Natale non vive solo una difficoltà economica. Vive una squalifica simbolica. Non posso esserci. Non posso dare. Non posso reggere il confronto. È così che la povertà diventa vergogna. E la vergogna diventa isolamento.
I social completano il massacro.
Mostrano un Natale continuo, senza crepe, senza silenzi, senza stanze vuote. Il confronto è inevitabile e spietato. Il cervello non distingue tra messa in scena e realtà. Registra solo la distanza. E quando la distanza è troppa, la conclusione è sempre la stessa: il problema sono io.
È una menzogna.
Questo disagio non è individuale. È strutturale.
È il prodotto di un modello che ha trasformato una festa in una macchina di pressione emotiva.
Il Natale è diventato un dispositivo normativo che chiede alle persone di funzionare anche nell’intimità. Chi vive una marginalità, economica, affettiva, identitaria, lo sente addosso con più violenza proprio quando dovrebbe sentirsi al sicuro.
Ed è qui che la favola crolla.
Una festa che lascia così tante persone sole non è stata tradita per caso. È stata piegata a una logica di consumo, di performance, di esclusione elegante. Tutto ciò che non rientra nello schema viene nascosto, minimizzato, colpevolizzato.
Forse il Natale dà fastidio quando viene raccontato per quello che è diventato perché costringe a guardare ciò che il resto dell’anno si evita. Le disuguaglianze. Le solitudini strutturali. Le famiglie idealizzate che, lontano dalle foto, sono luoghi di tensione e paura. Le vite che non funzionano come dovrebbero.
È più facile difendere la magia che affrontare la realtà.
Ma il problema non è chi a Natale sta male.
Il problema è una società che pretende silenzio quando il peso è più grande.
Che chiama fragilità ciò che è una risposta umana a una pressione disumana.
Il Natale, quello vero, non chiede prove.
Non misura.
Non giudica.
Tutto il resto è una costruzione.
E continuare a chiamarla festa non la rende meno violenta.










