Se dovessimo riassumere la vita di Vincent Van Gogh, lo faremmo con solitudine e spiritualità. Sappiamo, senza ogni ombra di dubbio che l’uno è sinonimo dell’altro, almeno nel significato che vogliamo recare al termine spirituale.
La solitudine è quell’elemento essenziale, se vogliamo, per acquisire un vero contatto col proprio io in una dimensione salvifica e infinita. Per Vincent era lo stesso. Camminare era il suo modo per rimettere in ordine le idee, per sentirsi appagato nel grigiore dei giorni nel quale si sentiva scosso da un nulla ineluttabile. Passava intere giornate attraverso i campi, raccogliendo uova e nidi, respirando aria nuova, che come poesia si mescola leggiadra nei paesaggi piatti e dai toni prevalentemente grigi della brughiera del centro Europa.
Capita a tutti di avere il desiderio avvolte di percorrere le strade cittadine da soli, senza una meta precisa, solamente per il gusto unico e incolmabile di rimettere apposto le idee e i pensieri. Per una necessità di annullarsi interiormente per ritrovarsi nei sensi. Porsi quelle domande esistenziali per dare ordine a quelle priorità, continuamente non conformi al nostro modo di essere, ma costantemente nella direzione del nostro modo di apparire.
Ritrovare se stessi non è sempre una scelta facile. È un’azione dolorosa, senza vie di scampo. Un riappropriarsi di quei colori che poi saranno fondamentali per definire ciò che siamo. Nel caso di Vincent fu con la pittura. Nella sua vita fu pittore. Un modo di fare arte per comunicare attraverso la pittura, se stessi. Il lavoro nei campi, i contadini: valorosi e portavoce del loro sacrificio volontario.
Umile, colossale maestro per Paul Cezanne. Allievo insostituibile del fratello Theo, che attraverso un rapporto epistolare siamo in grado di definire i tratti salienti dell’opera di Van Gogh, che ha sempre necessitato di “più colore nei quadri, più entusiasmo nella vita”.
L’entusiasmo lo ritrovò in una Parigi aperta, dinamica e sempre pronta a fargli scoprire nuovi stimoli e stili pittorici. Nella mente di Vincent c’è sempre stata la necessità di ritrovare se stesso, riguadagnando una fiducia insaziabile. Afflitto da continui flashback nostalgici che lo riportano a volersi nutrire dei paesaggi della sua infanzia, che lo hanno saputo tenere legato fino a quei 37 anni che conobbero la fine di un grande pittore che non visse per la sua arte. Solo postumo l’umanità ne ha saputo riconoscere il genio. Per farlo, ancora oggi, non ci rimane altro che camminare per ricongiungerci alla terra, violentata costantemente e allo stesso amata, perché l’unica in fin dei conti a ridarci ininterrottamente il desiderio di mescolarci nel suo ventre.
“L’uomo e la terra”, in mostra a Milano a Palazzo Reale fino all’8 marzo 2015. È un cammino di 47 opere nel mondo di un comune Vincent, che è riuscito a creare il mito di Van Gogh.