Poltrona

Articolo di: Gabriele Vinciguerra

In Europa le dimissioni sono un gesto di dignità. In Italia, invece, la poltrona è diventata un’armatura. Scandali, processi, condanne non smuovono nessuno. E non è solo un fatto politico: è un fenomeno psicosociale che rivela il lato oscuro della nostra cultura collettiva.

Altrove basta un’ombra

Per capire il paradosso italiano basta guardare oltre confine. In Germania, il ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg lasciò il suo incarico dopo essere stato scoperto a copiare parti della tesi di dottorato. Era uno degli uomini politici più popolari del Paese, eppure una macchia accademica bastò per chiudere la sua carriera. Pochi anni dopo, Franziska Giffey, ministra della Famiglia, fece lo stesso per accuse simili di plagio.

In Inghilterra, Angela Rayner, vicepremier del governo laburista, si dimise quando un’inchiesta dimostrò un’irregolarità fiscale di 40 mila sterline. Non milioni, non tangenti, non favori occulti: tasse non versate. Il gesto fu automatico. Non servì un processo, non servì una condanna. Bastò il danno all’immagine.

In Giappone, le dimissioni fanno parte della cultura politica. Una spesa mal giustificata, un errore di forma, una bugia scoperta. Non importa quanto grande o piccolo lo scandalo. Un passo indietro è dovuto, perché l’onore collettivo viene prima dell’interesse individuale.

In Italia la scena è ribaltata

Da noi non funziona così. In Italia nessuno si dimette. Non lo fanno ministri sotto processo, non lo fanno parlamentari condannati, non lo fanno esponenti travolti da scandali che in altri Paesi avrebbero chiuso la carriera in poche ore. Qui la poltrona è vista come proprietà privata. Non è un ruolo temporaneo, ma un trono. E dal trono non ci si alza, nemmeno davanti all’evidenza.

La differenza non è solo politica, è psicologica. Perché in Italia il passo indietro non è percepito come un atto di dignità, ma come una sconfitta personale e di partito. La vergogna non ha più forza sociale. L’etica pubblica non è un vincolo collettivo, ma un fastidio da aggirare.

Disimpegno morale: l’arte della giustificazione

Albert Bandura, il padre della teoria dell’apprendimento sociale, descrisse il concetto di moral disengagement, disimpegno morale. È il meccanismo psicologico con cui gli individui giustificano azioni che altrimenti genererebbero senso di colpa. In Italia lo vediamo all’opera ogni giorno.

Non è corruzione, è “finanziamento alla politica”. Non è abuso, è “uso improprio”. Non è truffa, è “errore amministrativo”. La parola viene piegata, svuotata, ripulita. Non si parla mai di colpa, ma di “accanimento giudiziario”, di “campagna mediatica”, di “strumentalizzazione politica”. È il linguaggio stesso a neutralizzare la responsabilità.

E più la parola si svuota, più la coscienza si alleggerisce. Se tutti chiamano furto un “rimborso”, allora non è più un furto. Se l’opinione pubblica è disposta a credere, la colpa svanisce. Il politico può restare dov’è, senza imbarazzo.

Diffusione della responsabilità: nessuno è mai colpevole

La psicologia sociale spiega bene un altro meccanismo: la diffusione della responsabilità. Quando un’azione coinvolge più persone, nessuno si sente direttamente responsabile. È lo stesso processo che spiega l’“effetto spettatore”: in una folla, meno individui si muovono per aiutare chi è in difficoltà, perché ciascuno pensa che lo farà qualcun altro.

In Italia, la politica funziona allo stesso modo. Se un partito intero è coinvolto, se più esponenti sono sotto inchiesta, se la corruzione appare sistemica, allora il singolo non sente il peso. Si nasconde nella massa. Non è colpa sua, è colpa del sistema. E se tutti sono colpevoli, nessuno lo è davvero.

Questo produce un cortocircuito devastante: più il fenomeno è diffuso, meno diventa intollerabile. L’anomalia si normalizza. Lo scandalo diventa routine.

Le norme sociali deviate

La psicologia insegna che il comportamento umano è guidato dalle norme sociali. Ci sono le norme prescritte, ciò che dovremmo fare, e quelle descrittive, ciò che fanno gli altri. Quando la distanza tra queste norme si allarga, il comportamento collettivo si sposta verso la devianza.

In Italia, la norma prescritta sarebbe chiara: se sbagli gravemente, ti dimetti. Ma la norma descrittiva è opposta: nessuno lo fa. Così la regola sociale diventa “resisti”. La collettività assorbe l’idea che non è necessario dimettersi. Che restare, anche accusati, sia normale.

Più spesso lo vediamo, più lo accettiamo. Finché un giorno non ci indigna più. E quando la società smette di indignarsi, il sistema si rafforza.

La vergogna cancellata

La vergogna è un’emozione sociale potente. Funziona solo se ci riconosciamo nello sguardo degli altri e temiamo il loro giudizio. In Germania, in Inghilterra, in Giappone la vergogna politica è ancora un’arma micidiale. Qui no.

In Italia la vergogna è stata neutralizzata. Chi è colpito da accuse non si percepisce come colpevole, ma come vittima. Non dice “mi vergogno”, dice “sono perseguitato”. E se sei vittima, non hai nulla da cui difenderti. Al contrario, puoi trasformare l’attacco in forza, usare lo scandalo come prova di autenticità, rivoltare l’accusa in consenso.

È un meccanismo perverso che ribalta le regole della responsabilità. Altrove l’indagine distrugge, qui diventa occasione di rilancio.

Identità di partito come clan

La psicologia delle masse spiega anche un altro fenomeno. Nei gruppi ad alta coesione, l’identità collettiva prevale sull’etica individuale. In Italia la fedeltà al partito, alla corrente, al leader conta più della trasparenza.

Chi sbaglia non viene abbandonato, viene protetto. Perché la sua caduta sarebbe una caduta per tutti. Così il partito diventa clan. E nel clan non c’è spazio per la vergogna. C’è solo lealtà.

Questo spiega perché i leader italiani raramente scaricano i loro alleati anche di fronte a scandali evidenti. L’errore del singolo è percepito come attacco al gruppo. La difesa diventa automatica. La responsabilità evapora.

La poltrona come identità

Ma il meccanismo più profondo è forse un altro. In Italia la poltrona non è solo un posto. È identità. È status, privilegio, rete di relazioni, opportunità. Perdere la poltrona significa perdere se stessi.

Ecco perché la resistenza è così feroce. Altrove il potere è un ruolo temporaneo, qui diventa la definizione stessa della persona. Non è “ho fatto il ministro”, è “sono il ministro”. Non è “sono stato deputato”, è “sono onorevole”. La grammatica racconta molto: il titolo sopravvive al ruolo, diventa permanente.

Questo attaccamento identitario rende le dimissioni impensabili. Perdere il ruolo significa perdere un pezzo di sé. Meglio resistere, anche nell’infamia, che rinunciare a quell’identità.

La complicità collettiva

E infine c’è il ruolo dell’opinione pubblica. La politica resiste perché la società glielo permette. Perché l’elettorato, pur indignato, alla fine premia la fedeltà più dell’onestà. Perché i media preferiscono il conflitto al rigore. Perché la rassegnazione è diventata cultura di massa.

La complicità collettiva è la cornice in cui tutto questo diventa possibile. Un Paese che non chiede dimissioni, che non pretende responsabilità, che normalizza lo scandalo. Un Paese che ha smarrito la misura del proprio degrado.

Il vero scandalo

Alla fine, il vero scandalo non sono i singoli casi. Non sono i processi, le condanne, le truffe. Il vero scandalo è il sistema psicosociale che li rende irrilevanti. È l’assenza di vergogna trasformata in vanto. È la responsabilità dissolta nella nebbia delle giustificazioni. È la poltrona eretta a simbolo eterno di potere.

Altrove ci si alza e si chiede scusa. In Italia ci si siede e si alza la voce. È questa la nostra tragedia.

 

 

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra è un artista visivo e psicologo. Fotografa l’anima prima ancora dei volti. Ogni scatto è un atto di verità, un frammento di silenzio che vibra, un incontro autentico tra la sua sensibilità e l’essenza umana di ciò che ritrae. Le sue immagini non decorano, scavano. Non mostrano, rivelano. La moda è il suo lessico estetico: un universo che abita da anni, dove eleganza e identità si fondono in visioni che superano la superficie. Ma la macchina fotografica, per lui, è solo il mezzo. Il fine è più alto: far sentire, toccare, ricordare. Laurea in Psicologia, con un focus sulla psicologia sociale e sul potenziale evolutivo dell’essere umano. Questo non è un dettaglio biografico, è un orizzonte che trasforma il suo modo di guardare, ascoltare, raccontare. Le sue opere non parlano solo agli occhi, ma alle parti invisibili che ci compongono. E poi ci sono le parole. Le usa come una seconda lente, forse la più affilata. Ogni parola per lui pesa, pulsa, incide. Perché sa che quando immagine e linguaggio si incontrano, nasce qualcosa che può toccare profondamente, cambiare prospettiva, lasciare un segno. Il suo lavoro è questo: un intreccio di visione e coscienza, di luce e psiche. Un viaggio dentro l’umanità, per chi ha il coraggio di guardare davvero.

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