Deculturazione

Editoriale di: Gabriele Vinciguerra

Un Paese che smette di credere in se stesso

C’è un luogo dove il tempo non si perde, ma si trasforma: la cultura. In Italia questo luogo è stato progressivamente svuotato, lasciato a pezzi come un edificio abbandonato. La cultura è diventata un costo, non un investimento. Una voce di bilancio da limare, non il cuore di un progetto collettivo.

Il risultato è devastante: giovani che partono, famiglie che non nascono, cittadini che smettono di credere nel proprio Paese. L’Italia si sta auto-condannando a un lento suicidio culturale.

I numeri che raccontano un deserto

  • L’Italia destina alla cultura circa lo 0,3 % del PIL, contro una media UE dello 0,4 %. La Francia tocca lo 0,6 %, mentre Germania e Spagna raggiungono lo 0,4 % (Osservatorio CPI).
  • Nel 2021 la spesa media dei Comuni italiani per la cultura è stata di appena 18,8 euro pro capite, con divari enormi: dai 55 euro di Bolzano ai 2,7 euro in Campania (Istat).
  • Secondo il rapporto BES Istat, siamo al 23° posto su 28 Paesi UE per spesa culturale. Peggio di noi solo pochi Stati, come Romania e Grecia (Finestre sull’Arte).

Questi numeri non sono solo statistiche: sono radiografie di un Paese che arretra, che rinuncia a nutrire la propria identità.

Le ferite psicosociali

Giovani senza futuro

Studiare in Italia è diventato un atto di fede. Lauree, master, specializzazioni: percorsi lunghi e costosi che si infrangono contro stipendi precari e contratti instabili. Il risultato è un’intera generazione che vive in una sospensione emotiva, prigioniera di ansia e frustrazione.

La fuga dei cervelli

Il fenomeno non è retorica, ma tragedia strutturale. L’Italia forma e paga giovani di talento, che poi regalano competenze e innovazione a Paesi che li accolgono. Uno su tre dei ricercatori top se ne va, e tra i primi 100 uno su due emigra (Wikipedia). La perdita è doppia: economica e identitaria.

Famiglie congelate

Il calo demografico non è solo una questione economica: è il riflesso di un trauma psicosociale. Senza stabilità, i giovani rinunciano a mettere al mondo figli. La precarietà lavorativa diventa precarietà affettiva. Nasce un deserto demografico, prima ancora che sociale.

Democrazia mutilata

La cultura è il vaccino contro la manipolazione. Senza strumenti critici, i cittadini diventano più vulnerabili al populismo, più passivi, meno inclini alla partecipazione. È il terreno perfetto per chi governa senza visione.

A chi conviene?

  • Alle élite economiche, che beneficiano di una popolazione meno informata, più docile, più sfruttabile.
  • Alla politica miope, che preferisce inaugurare strade e distribuire bonus piuttosto che investire in biblioteche, scuole e teatri.
  • Al mercato della precarietà, che si nutre di competenze sottopagate, trasformando il talento in risorsa usa e getta.

Il costo invisibile

Il vero danno non è nei bilanci, ma nella psiche collettiva. È il messaggio che passa: “La tua intelligenza non conta. La tua creatività non vale. Il tuo futuro non è la nostra priorità.”

Un messaggio che genera apatia, rabbia silenziosa, fuga. Prima emotiva, poi fisica. È così che un Paese si desertifica, non solo nei numeri, ma nelle coscienze.

Italia, il suicidio culturale

Non si muore solo di fame. Si muore anche di ignoranza, di cecità, di disattenzione. L’Italia sta scegliendo la morte più lenta e dolorosa: quella culturale.

Un Paese che non investe in cultura è un Paese che rinuncia alla sua identità. Che si consegna all’oblio, che lascia i giovani senza radici e senza prospettive. Non è crisi: è auto-sabotaggio. È suicidio.

La domanda è: quanto ancora potremo restare spettatori?

 

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra (Laurea in psicologia), lavora sul confine tra visione e coscienza. È artista visivo e psicologico, ma prima ancora è un osservatore radicale dell’essere umano. Il suo sguardo non cerca l’effetto, cerca il punto in cui qualcosa accade davvero. Dove una persona smette di mostrarsi e inizia, anche solo per un istante, a rivelarsi. La moda è uno dei linguaggi che attraversa da anni. Non come superficie, ma come spazio identitario, luogo simbolico in cui corpo, storia e appartenenza si incontrano. Per lui l’estetica non è ornamento, è posizione. È una presa di responsabilità sul modo in cui scegliamo di apparire, e quindi di esistere. La formazione in Psicologia, con un’attenzione particolare alla dimensione sociale e ai processi evolutivi dell’individuo, non è un capitolo a parte. È la lente che orienta tutto il suo lavoro. Influenza il modo in cui guarda, ascolta, costruisce senso. Ogni progetto nasce da lì, dal tentativo di restituire complessità senza semplificazioni, profondità senza compiacimento. Accanto alle immagini ci sono le parole. Non come didascalia, ma come strumento di scavo. Le usa con precisione, perché sa che il linguaggio può fare danni o aprire spazi. Quando immagine e parola si incontrano, per lui, non devono spiegare. Devono risuonare. Il suo lavoro, come Direttore di Alpi Fashion Magazine, è questo: tenere aperto uno spazio editoriale in cui cultura, moda e psicologia non si sovrappongono, ma dialogano. Un luogo che non rassicura, ma accompagna. Un invito a guardare meglio, e forse anche a guardarsi. Non per tutti. Ma per chi è disposto a restare.

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