Gabriele Micalizzi

Intervista di: Gabriele Vinciguerra

Ascoltando Gabriele Micalizzi in una conferenza di TEDx Milano, ad un certo punto esordisce con questa frase: “in questo secolo tutti sono protagonisti e nessuno ha un c…. da dire”.
Forse una provocazione… ma ho amato questa frase, che in poche parole ha racchiuso tutto il decadimento culturale e sociale del nostro tempo, espresso sui social network. Fortunatamente per noi, esistono persone che come lui, di cose da dire ne hanno veramente tante.

Gabriele Micalizzi

Come si diventa Reporter di guerra?

Bella domanda… Non è stato per niente semplice. Vengo da una famiglia proletaria che non poteva certo agevolarmi. Ho frequentato l’istituto d’Arte dove mi sono subito affascinato al ruolo del Reporter, ovvero come l’opportunità di visitare luoghi e posti incredibili, visto che la mia famiglia non aveva le possibilità economiche. In quel momento si concretizzò in me ciò che volevo fare nella vita.

Il padre di un mio amico che faceva il fotografo per la Gazzetta vide in me delle qualità e mi indirizzò presso l’agenzia Newpress dove mi pagavano sui pubblicati. Quindi armato di macchina fotografica e motorino, giravo per la città alla ricerca di news appetibili. E quella è stata una gavetta durissima.

Ma quello che volevo fare era il Reporter di guerra.

Ho contattato tantissima gente e tantissime porte in faccia mi sono arrivate. Fino a quando tramite una carissima amica sono stato presentato presso lo Studio Cesura con il quale a distanza di anni collaboro ancora con loro.

Il primo approccio alla guerra l’ho avuto nel 2009 in Afghanistan. Ho contattato l’ufficio stampa dell’esercito e alla fine ci sono riuscito. Trovandoti in situazioni di conflitto capisci subito se quello è il mestiere che fa per te o no.

Quando sei in zona di guerra, come gestisci la logistica. Come fai a pianificare nella misura in cui sia possibile farlo?

Partiamo dal presupposto che non è scontato trovarsi in un teatro di guerra. Ogni situazione è a sé, distinguendo se è una guerra o una rivoluzione.

Sicuramente bisogna crearsi una rete di contatti, permessi, visti giornalistici, affinché in quella situazione di anarchia che si genera, ci si possa muovere tra le varie maglie che si creano.

Fixer o uomo sul posto, ci si può fidare?

Fa parte del lavoro capire di chi ci si può fidare o no. Di solito usiamo dei locali, quindi ci troviamo a dover rimettere le nostre vite nelle mani di queste persone. Quando possiamo ricerchiamo delle referenze in merito. Altre volte le trovi in loco e comunque la fiducia va meritata. Non è che ci rimettiamo completamente a loro. Ed a prescindere da loro, bisogna sempre stare molto attenti con tutti quelli con cui hai a che fare.

Gabriele Micalizzi

Ti sei sentito d’intralcio in una situazione di conflitto?

No! Parto dal presupposto che tutti hanno un ruolo, e quello del Reporter è tra quelli. Nella misura in cui si applica l’educazione, il buon senso ed il rispetto, tutto è possibile.

È capitato di dover fotografare un padre che piangeva con in braccio il figlio morto. È difficile puntare la macchina fotografica e scattare di fronte a una scena così. Ma è anche vero che quello è il motivo per cui sei li.

Gabriele Micalizzi

La situazione più drammatica che hai visto?

Che dire… ne ho viste veramente tante. Alcune di queste mi hanno impressionato come vedere un sacco pieno di pezzi di bambini.

Oppure due ragazzi che dopo un bombardamento ci hanno chiamati per aiutarli a raccogliere i pezzi della madre che era stata fatta a brandelli.

Sono situazioni drammaticamente forti, surreali. Tutto è talmente assurdo che a volte diventa anche difficile mantenere la lucidità.

Gabriele Micalizzi

Hai sempre carta bianca su ciò che documenti?

Se lavori con gli addetti stampa o gli eserciti ci sono delle regole da rispettare, anche se in genere mi sento autonomo.

Gabriele Micalizzi

Ti è capitato di avere delle testimonianze che non ti è stato possibile mostrare?

È capitato. Ricordo quando la CIA nel fare il controllo dei prigionieri, ci ha chiesto cortesemente di non fotografare.

È evidente che quando questo accade ci si trova di fronte ad una situazione sensibile. Noi sappiamo di essere li per documentare, ma esistono delle situazioni in cui se ti chiedono di non farlo, avranno delle ragioni a volte al di sopra di loro.

In guerra le dinamiche vengono gestite anche dal rapporto umano che si instaura. Queste dinamiche ti fanno capire che quando c’è un’apertura di un certo tipo nel farti operare in zone particolari e se c’è una cortese richiesta, è giusto assecondarla. Do ut des…

Gabriele Micalizzi

Ti capita di sentire degli odori che ti riportano a situazioni dolorose?

Si. Molto più che le immagini. Se dovessi descrivere la guerra, lo farei con gli odori.

Ci sono delle situazioni in cui convivi con odori indescrivibili.  Provate ad immaginare di trovarvi durante una rivoluzione. Decine e decine di persone concentrate in un contesto dove tutto avviene a cielo aperto. Cibo, urina, escoriazioni, pattume che rimangono lì, marciscono dando origine ad un odore putrido. Vi sembrerà macabra come situazione, ma è la testimonianza che gli odori rimangono più impressi delle immagini.

Ricordo in Ucraina, quando in un obitorio dovetti passare in mezzo ad una sfilza di cadaveri che nonostante il freddo gelido emanavano odore di pesce marcio identico a quello lasciato fuori dal frigorifero. E se mai mi capita di sentire un odore vagamente simile, mi si ghiaccia il sangue e la mente mi riconduce a quell’episodio. Oppure l’odore dei lacrimogeni che riconosco a distanza di un chilometro e mi si accende l’adrenalina.

Gabriele Micalizzi

Come gestisci la scena di guerra condividendola con altri colleghi?

Sicuramente prima sulla scena c’erano molti più colleghi. Adesso che l’editoria è in crisi ed io in particolare mi occupo di situazioni ad alto rischio, capita di ritrovarmi da solo o con qualche altro collega.

Inoltre, dipende da dove si trova il conflitto, di conseguenza non tutti riescono ad avere i permessi necessari e la liquidità. Avere una certa disponibilità nelle zone di guerra è un aspetto fondamentale.

Gabriele Micalizzi

Come gestisci la paura?

Più che la paura è l’ansia. Un aspetto con il quale ci convivo da un po’. Tuttavia, ho i miei tricks che mi aiutano a gestirla.

Oltre al fatto che dopo tanti anni quando acquisisci la consapevolezza che tutto possa finire da un momento all’altro, alleggerisce un po’. Ma ci vuole una bella presa di coscienza.

Gabriele Micalizzi

Aver perso amici/colleghi, ti ha fatto riflettere se continuare o no a fare questo mestiere?

Certo! Ma la risposta è stata: Vaffanculo continuerò a farlo finché potrò.

Gabriele Micalizzi

Gabriele Micalizzi e la famiglia?

Una domanda molto difficile alla quale rispondere.

È complicato, per uno che come me è sempre via. La mia professione non è relegata solo alla guerra, ma anche ad altre attività del settore fotografico come realizzare la copertina per Rolling Stone, fare campagne pubblicitarie, al fotografo di scena per le serie Tv ed altro. Sicuramente quando sono a casa tutto il resto non conta più. Conta solo la famiglia, ed in quel caso non penso a niente altro.

intervista di: Gabriele Vinciguerra

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra (Laurea in psicologia), lavora sul confine tra visione e coscienza. È artista visivo e psicologico, ma prima ancora è un osservatore radicale dell’essere umano. Il suo sguardo non cerca l’effetto, cerca il punto in cui qualcosa accade davvero. Dove una persona smette di mostrarsi e inizia, anche solo per un istante, a rivelarsi. La moda è uno dei linguaggi che attraversa da anni. Non come superficie, ma come spazio identitario, luogo simbolico in cui corpo, storia e appartenenza si incontrano. Per lui l’estetica non è ornamento, è posizione. È una presa di responsabilità sul modo in cui scegliamo di apparire, e quindi di esistere. La formazione in Psicologia, con un’attenzione particolare alla dimensione sociale e ai processi evolutivi dell’individuo, non è un capitolo a parte. È la lente che orienta tutto il suo lavoro. Influenza il modo in cui guarda, ascolta, costruisce senso. Ogni progetto nasce da lì, dal tentativo di restituire complessità senza semplificazioni, profondità senza compiacimento. Accanto alle immagini ci sono le parole. Non come didascalia, ma come strumento di scavo. Le usa con precisione, perché sa che il linguaggio può fare danni o aprire spazi. Quando immagine e parola si incontrano, per lui, non devono spiegare. Devono risuonare. Il suo lavoro, come Direttore di Alpi Fashion Magazine, è questo: tenere aperto uno spazio editoriale in cui cultura, moda e psicologia non si sovrappongono, ma dialogano. Un luogo che non rassicura, ma accompagna. Un invito a guardare meglio, e forse anche a guardarsi. Non per tutti. Ma per chi è disposto a restare.

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