Articolo di: Gabriele Vinciguerra
C’è un nuovo tipo di maestro in città. Non porta camici bianchi né tesserini professionali. Ha uno smartphone, un microfono e un’aura di luce dietro le spalle. Parla di vibrazioni, chakra, frequenze e anime in guarigione. Dice di poter riallineare la tua energia o resettare la tua mente in tre giorni. E, incredibilmente, la gente ci crede.
Nel mondo digitale la verità non si misura più con il rigore, ma con l’engagement. I like sono diventati il nuovo indice di attendibilità. E così, in un click, la psicologia, quella vera, fatta di ascolto, metodo, studio e presenza, viene sostituita da un cocktail di spiritualità prêt-à-porter e marketing emozionale.
Non è solo un problema etico. È un cortocircuito culturale.
La mente umana, fragile e affamata di senso, si ritrova a cercare cura dove trova consenso. E il consenso, sui social, si ottiene promettendo soluzioni immediate. “Ti senti perso? Respira luce.” “Hai ansia? Bevi questa tisana e ripeti il mantra.” “Non ti senti amato? Sei solo disallineato con l’universo.”
Tutto facile, tutto indolore.
Ma la verità psicologica è un’altra: non si guarisce ciò che non si affronta.
E la sofferenza non è un difetto energetico, è parte della nostra umanità.
La spiritualità in sé non è il nemico. È la sua banalizzazione a esserlo.
Quando diventa strumento di business o surrogato di terapia, smette di essere via interiore e diventa anestetico di massa. Calma, sì, ma non cura. Illumina per qualche giorno, ma non trasforma.
Lo psicologo, invece, non promette miracoli.
Promette lavoro. Ti accompagna dove non vuoi guardare, ti restituisce la responsabilità di essere umano. Ti chiede tempo, coraggio, presenza. Ti fa male, ma quel male è crescita.
Eppure oggi, tra un post motivazionale e un video da trenta secondi, chi ha voglia di affrontare il dolore quando si può semplicemente alzare le vibrazioni?
La verità è che molti preferiscono le bugie dolci alla verità amara.
Non perché siano ingenui, ma perché viviamo in una cultura che ha paura della fatica emotiva. I social ci hanno abituati a credere che ogni ferita si possa curare con un filtro, ogni mancanza con una frase positiva, ogni trauma con un seminario quantico.
Nel frattempo la scienza tace.
O meglio, resta confinata nei convegni, nei linguaggi accademici, nelle aule universitarie. Mentre fuori, su Instagram, il mercato dell’anima cresce indisturbato.
Ma la colpa non è delle persone che cercano aiuto, è del sistema che ha reso la psicologia meno accessibile e la pseudoscienza più seducente.
La responsabilità, allora, non è solo dei guru del benessere, ma delle piattaforme che li amplificano. Hanno costruito un universo dove conta più la forma della verità che la verità stessa. L’algoritmo non distingue il metodo dall’improvvisazione. Premia chi fa rumore, non chi cura davvero.
Forse è qui che dovremmo tornare a guardare.
A scuola, dove tutto comincia. Dove i ragazzi imparano che emozione è sinonimo di debolezza, che la vulnerabilità va nascosta. Dove si cresce imparando a rispondere, non a riflettere. Finché non educheremo alla mente, non solo all’intelletto, continueremo a creare adulti che cercano la pace nel posto sbagliato.
Il benessere vero non si compra, non si scarica, non si trasmette in diretta.
È un cammino che passa dalla conoscenza, dalla relazione, dal coraggio di restare.
E a chi, oggi, si proclama guaritore universale, basterebbe ricordare una cosa:
non si illumina nessuno se non si è disposti a scendere nel buio.











