Intervista di: Gabriele Vinciguerra
C’è un momento, prima che la tavola tocchi l’acqua, in cui tutto si ferma. Il respiro, il pensiero, il mondo. Resti solo tu, il mare e un silenzio che sembra infinito. È lì che Francisco Anglani Cornielle impara ogni giorno la lezione più autentica della vita: non comandare la natura, ma ascoltarla. A quindici anni cavalca onde grandi come case, sfida la paura e la trasforma in presenza. Il surf per lui non è un gioco, è una lingua antica che parla di rispetto, coraggio e verità. In un tempo in cui tutti cercano visibilità, lui cerca profondità. E in quell’abisso, trova se stesso.
Cosa senti un attimo prima di entrare in acqua, quando la tavola tocca l’onda e tutto il rumore del mondo scompare?
Quando sto per entrare in acqua sento una strana incertezza, perché non sai mai davvero a cosa vai incontro lì dentro. È la prima onda a decidere il destino della sessione. Appena la prendo, il cuore comincia a battere forte. Sono sensazioni che solo chi cavalca onde di un certo livello può comprendere: eccitazione, ansia, adrenalina. Lo definirei “sublime”, un equilibrio fragile tra bellezza e paura.
Il surf è equilibrio, ma anche rischio. In che momento hai capito che non stavi più solo giocando con le onde, ma con la vita stessa?
L’ho capito a dodici anni, a Supertubos, una delle onde più potenti del mondo. Quel giorno il mare era tre metri, con una forza di circa quattromila kilojoule. Dopo qualche onda surfata, al rientro la corrente mi ha spinto sotto il picco centrale. È arrivata un’onda enorme, mi ha letteralmente inghiottito e sbattuto sul fondale. Quando sono riemerso, un’altra mi ha colpito e poi un’altra ancora mi ha tenuto intrappolato sul fondo. Ho iniziato a bere acqua, ma alla fine sono riuscito a risalire e uscire. Avevo rischiato di annegare.
Un altro wipeout indimenticabile è stato nel 2024 a Nazaré: una caduta da un’onda di dodici metri. In quel buio ho mantenuto la calma e sono riemerso dopo dodici secondi di “laundry service”. L’esperienza, in certi momenti, è tutto.
Molti big wave rider dicono che ogni volta che entriamo in certe condizioni stiamo scherzando con la morte. Ed è vero. È un tema complesso, che ti cambia dentro.
Ti sei definito “tow-in surfer”. In un’epoca in cui molti cercano visibilità, tu sembri cercare profondità. Cosa significa per te “meritarsi un’onda”
Domanda bellissima, Gabriele. Qui si entra in un territorio quasi mistico, tipico della cultura polinesiana e hawaiana.
Meritarsi un’onda non significa solo prenderla, ma arrivarci con rispetto. L’oceano ti dà ciò che ti meriti, come se conoscesse il tuo livello tecnico e la tua paura. Ogni onda ha un’anima, e tu devi dimostrarti degno di incontrarla. Quando la trovi, devi entrare in sintonia con lei, cavalcarla e ringraziarla. Non la conquisti, ti viene concessa.
È come una donna bellissima, quasi una dea. Puoi solo trattarla con amore e rispetto.
Oggi molti lo fanno solo per la visibilità, per i social. Ma nel surf, nel tow-in, c’è qualcosa di più profondo. Non puoi comprarlo con i soldi. Lo capisci solo se provieni da una cultura del mare, da generazioni che vivono il mare come identità. Tornare alle proprie radici è fondamentale.
In acqua ormai il rispetto è raro. Tutti cercano un’onda solo per farsi filmare. Io sono stato il primo bambino italiano a spingere una cultura diversa. Molti mi hanno seguito, copiato, ma io continuerò il mio cammino con la mia filosofia del mare, della libertà, con o senza visibilità.
Chi o cosa ti ha insegnato a non mollare nei giorni in cui l’oceano non perdona?
Mi hanno insegnato a non mollare mai, soprattutto quando l’oceano ti butta fuori e ti ricorda quanto sei piccolo. Bisogna accettare che è lui a comandare, non tu. Puoi avere la migliore tavola, la muta più costosa, il coach più bravo, ma sarà sempre lui a decidere come andrà la tua sessione.
Un grazie enorme a mio padre, Fabry, che mi ha insegnato a cadere e a rialzarmi. E ai miei coach, Zion, Helio, Halley e Jason, che mi hanno aiutato a superare paure e limiti, a spostare ogni volta un po’ più in alto l’asticella.
Hai quattordici anni e un titolo europeo. Ma cosa significa vincere, davvero, quando il mare ti mette alla prova ogni giorno?
Vincere significa che tutti i sacrifici fatti hanno avuto un senso. Dietro c’è un lavoro enorme della mia famiglia e dei miei coach.
Le sensazioni sono forti, una felicità piena di adrenalina che ti fa crescere dentro. Ogni vittoria ti cambia mentalmente e spiritualmente. Ti fa capire che il sogno è reale.
Tutto quello che ho conquistato l’ho guadagnato con fatica. Non veniamo da una famiglia ricca, non abbiamo appoggi o raccomandazioni. Per questo ogni vittoria per me è sacra, la vivo come se fosse l’ultima.
Ti capita mai di sentirti piccolo davanti a qualcosa di così immenso come il mare? O in quell’immensità trovi te stesso?
Bisogna sempre rispettare il mare. Quando sei lì, diventi parte di lui. Smetti di essere un uomo e ti trasformi in una creatura acquatica. Sott’acqua valgono altre regole, non quelle della terra ferma. E devi accettarlo.
Il surf è anche estetica, ritmo, presenza. Ti riconosci nel gesto o nella ricerca della perfezione del gesto?
Cerco la perfezione in ogni gesto. Sempre. Dal momento in cui apro gli occhi la mattina, ogni movimento è già mare. Ogni dettaglio, anche il più piccolo, ha un ritmo che mi riporta lì. Tecnicamente provo sempre qualcosa di nuovo, qualcosa che sia insieme innovativo e perfetto.
Se dovessi raccontare la tua generazione in un’unica onda, come sarebbe? Violenta, incerta o libera?
Direi incerta. Senza idee. E spesso maleducata. Mi dispiace dirlo, ma è così.















