Jonathan Anderson

Editoriale di: Gabriele Vinciguerra

Ci sono gesti nella moda che non fanno rumore.
E poi ci sono le scosse telluriche.
La nomina di Jonathan Anderson alla guida di tutte le linee Dior  uomo, donna, haute couture, accessori  è questo: una scossa che riscrive la storia.

Non era mai accaduto.
Mai, neppure ai tempi di Monsieur Dior.
La maison ha sempre preferito le dicotomie, le coesistenze. Da Maria Grazia Chiuri per il womenswear a Kim Jones per il menswear, Dior ha navigato a più timoni. Ora cambia tutto. Ora si affida a un solo sguardo.

Jonathan Anderson non è un nome qualsiasi.
Nordirlandese, classe 1984, con un passato da attore e una mente affilata da scultore dell’ambiguità. Con JW Anderson ha creato un’estetica che non chiede il permesso di esistere. A Loewe ha compiuto un miracolo: ha trasformato il savoir-faire in qualcosa di radicale, sensuale, concettuale.
Ora, con Dior, entra nella cattedrale della couture parigina non per accendere i ceri, ma per cambiare l’altare.

L’eredità che raccoglie non è leggera.
Maria Grazia Chiuri ha lasciato un segno profondo.
Ha ridato al corpo femminile un potere narrativo. Ha portato il femminismo nei ricami, le citazioni letterarie nei bustier, e la politica negli orli.
Era una donna che non ha mai nascosto il suo pensiero, neanche quando strideva con le aspettative del lusso.

Anderson eredita quella libertà. Ma non la ripete.
Il suo sguardo non è militante, è mutante.
Non crea moda per affermare, ma per domandare.
Nel suo mondo i generi collassano, i tessuti parlano sottovoce, i dettagli fanno più rumore di una campagna.
Con lui, Dior rischia di diventare più silenziosa. Ma più potente.

Questo incarico non è solo un premio.
È una prova.
Perché unificare tutte le linee sotto una sola direzione non è solo una sfida stilistica: è un atto di fede.
Significa credere che esista ancora una visione sufficientemente ampia, profonda, trasversale da contenere l’uomo e la donna, il prêt-à-porter e l’alta moda, la storia e il futuro.
Significa dire al mondo: “Dior non ha bisogno di più voci. Ne basta una. Ma che sia irripetibile.”

Il 27 giugno, alla Paris Fashion Week, la prima collezione Dior Homme firmata Anderson sarà più che una sfilata: sarà un testamento di visione.
E in autunno arriverà la collezione donna.
E poi, a gennaio 2026, l’haute couture.
Tre prove. Tre palcoscenici. Un solo regista.

Ma c’è un dettaglio che va detto, anche se nessun comunicato stampa lo scriverà.
Se fallisce, non c’è un’altra direzione su cui appoggiarsi.
È solo!
Come lo sono sempre i pionieri.

Perché non dimentichiamolo: questa è la prima volta che Dior si affida completamente a un unico nome.
E non poteva sceglierne uno più destabilizzante.

 

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra è un artista visivo e psicologo. Fotografa l’anima prima ancora dei volti. Ogni scatto è un atto di verità, un frammento di silenzio che vibra, un incontro autentico tra la sua sensibilità e l’essenza umana di ciò che ritrae. Le sue immagini non decorano, scavano. Non mostrano, rivelano. La moda è il suo lessico estetico: un universo che abita da anni, dove eleganza e identità si fondono in visioni che superano la superficie. Ma la macchina fotografica, per lui, è solo il mezzo. Il fine è più alto: far sentire, toccare, ricordare. Laurea in Psicologia, con un focus sulla psicologia sociale e sul potenziale evolutivo dell’essere umano. Questo non è un dettaglio biografico, è un orizzonte che trasforma il suo modo di guardare, ascoltare, raccontare. Le sue opere non parlano solo agli occhi, ma alle parti invisibili che ci compongono. E poi ci sono le parole. Le usa come una seconda lente, forse la più affilata. Ogni parola per lui pesa, pulsa, incide. Perché sa che quando immagine e linguaggio si incontrano, nasce qualcosa che può toccare profondamente, cambiare prospettiva, lasciare un segno. Il suo lavoro è questo: un intreccio di visione e coscienza, di luce e psiche. Un viaggio dentro l’umanità, per chi ha il coraggio di guardare davvero.

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