Dario Vitale

Editoriale di: Gabriele Vinciguerra

Dario Vitale scuote Versace: moda tra coraggio e mercato

La moda non è nata per accarezzare. È nata per dividere, provocare, ferire. Il debutto di Dario Vitale alla direzione creativa di Versace lo ha ricordato con forza, facendo arrabbiare molti e costringendo tutti a domandarsi: cos’è oggi Versace, e cosa dovrebbe essere la moda?

Atto I: Versace oggi, un’eredità irrequieta

Parlare di Versace significa parlare di un mito. Gianni aveva trasformato la sensualità in linguaggio politico: corpi liberi, barocco esibito, eccesso come dichiarazione di indipendenza. Dopo la sua morte, Donatella ha portato avanti quel patrimonio, piegandolo alle esigenze del mercato globale, rendendo il brand sempre più riconoscibile e, in molti casi, rassicurante.

Ma l’eredità di Versace non è un tempio da conservare. È una bomba inesplosa. Chiunque si sieda su quella poltrona eredita un nome che non è solo un marchio, ma un simbolo di eccesso, sensualità e potere. Vitale ha capito che non poteva limitarsi a fare il custode del museo. Ha scelto di disturbare.

Il suo debutto è stato uno schiaffo. Tagli spigolosi, colori netti, corpi che non accarezzano ma spingono. Non un omaggio nostalgico, ma una dichiarazione: Versace non deve restare immobile.

Le reazioni sono state feroci. C’è chi ha gridato al tradimento, chi ha evocato Gianni che “si rivolta nella tomba”, chi ha accusato Vitale di aver perso il filo dell’identità. In realtà, queste accuse confermano il valore dell’operazione: quando una collezione divide così tanto, significa che ha toccato nervi scoperti.

Atto II: Moda o marketing? Il sistema allo specchio

Qui dobbiamo essere onesti. Da tempo la moda ha smesso di interrogare la società. Oggi il sistema è drogato dal mercato: si disegna per vendere, si pensa per piacere su Instagram, si costruiscono sfilate come contenuti social più che come atti culturali. Le maison sono strumenti finanziari travestiti da laboratori creativi.

Il lato oscuro è evidente: loghi ovunque, capsule infinite, collaborazioni pensate più per alimentare il hype che per dire qualcosa di nuovo. La moda si è ridotta a macchina di fatturato, perdendo la capacità di scuotere davvero. Il risultato è un’industria che produce vestiti, ma sempre meno immaginari.

In questo scenario, il debutto di Vitale ha rappresentato un inciampo nel meccanismo perfetto. Non era pensato per piacere a tutti, non era disegnato per essere Instagram-friendly. È stato ruvido, persino fastidioso. E proprio per questo ha ricordato che la moda non nasce per compiacere.

Certo, non possiamo illuderci: anche Vitale lavora dentro il mercato e per il mercato. La sua provocazione non vive fuori da quel sistema, ma dentro. Ma proprio per questo è preziosa: ha sporcato il meccanismo dall’interno, mostrando che si può ancora rischiare.

Atto III: La funzione sociale della moda

E qui arriviamo al punto. La moda non è solo abito. È linguaggio, specchio, detonatore. Deve parlare dei corpi e dei tempi, raccontare tensioni, desideri, contraddizioni. Negli anni ottanta e novanta ogni collezione era un manifesto. Oggi troppe maison hanno abdicato a questa funzione, riducendo la moda a intrattenimento commerciale.

Vitale, con tutti i suoi limiti, ha avuto il merito di restituire alla moda quel compito originario: disturbare. Ha riportato Versace nel dibattito culturale. Ha costretto la stampa, i social, gli addetti ai lavori a prendere posizione. Ha diviso, irritato, scosso.

Il lato positivo è chiaro: un brand che torna a essere vivo, che genera conversazioni, che non si limita a esporre abiti. Il lato negativo è altrettanto evidente: il rischio che la rottura rimanga sterile, che diventi solo posa, che la provocazione si consumi in fretta.

Ma qui sta la verità che non vogliamo sentire: meglio rischiare l’incomprensione che accontentarsi del consenso. Meglio un Versace che divide che un Versace che vende e basta. Perché la moda, quando si riduce a pacchetto commerciale, smette di essere linguaggio. Diventa merce.

Nota del Direttore

Il debutto di Dario Vitale ha fatto arrabbiare tutti. Bene. Perché solo ciò che fa arrabbiare ci ricorda che siamo vivi. La moda non deve piacere, deve provocare. Non deve vendere, deve raccontare. Se Versace saprà restare su questa linea, anche tra errori e cadute, avrà restituito dignità a un sistema che troppo spesso si è venduto al mercato.

Meglio un abito che divide che mille che anestetizzano. Meglio una passerella che provoca rabbia che una che scorre senza lasciare traccia. Perché la moda non è balsamo. È taglio. È verità.

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra è un artista visivo e psicologo. Fotografa l’anima prima ancora dei volti. Ogni scatto è un atto di verità, un frammento di silenzio che vibra, un incontro autentico tra la sua sensibilità e l’essenza umana di ciò che ritrae. Le sue immagini non decorano, scavano. Non mostrano, rivelano. La moda è il suo lessico estetico: un universo che abita da anni, dove eleganza e identità si fondono in visioni che superano la superficie. Ma la macchina fotografica, per lui, è solo il mezzo. Il fine è più alto: far sentire, toccare, ricordare. Laurea in Psicologia, con un focus sulla psicologia sociale e sul potenziale evolutivo dell’essere umano. Questo non è un dettaglio biografico, è un orizzonte che trasforma il suo modo di guardare, ascoltare, raccontare. Le sue opere non parlano solo agli occhi, ma alle parti invisibili che ci compongono. E poi ci sono le parole. Le usa come una seconda lente, forse la più affilata. Ogni parola per lui pesa, pulsa, incide. Perché sa che quando immagine e linguaggio si incontrano, nasce qualcosa che può toccare profondamente, cambiare prospettiva, lasciare un segno. Il suo lavoro è questo: un intreccio di visione e coscienza, di luce e psiche. Un viaggio dentro l’umanità, per chi ha il coraggio di guardare davvero.

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