abito terapia

Articolo di: Gabriele Vinciguerra

VESTIRSI PER RICORDARE CHI SIAMO,
per chi ascolta i vestiti come se fossero canzoni dimenticate

C’è un istante, ogni mattina, in cui ci fermiamo davanti all’armadio. È un momento minuscolo, che spesso attraversiamo distratti, ma che in realtà contiene un gesto antico, profondissimo: scegliere cosa indossare. Non è solo una questione di colore o comodità. È una specie di silenziosa dichiarazione d’identità. Un modo, forse l’unico, per dirci senza parole: chi voglio essere oggi?

E no, non si tratta di moda. O almeno, non solo.
Si tratta di memoria, di pelle, di verità.

Un diario fatto di stoffa

A volte non ci facciamo caso, ma il nostro guardaroba è una specie di diario emotivo. Un archivio privato. Ci sono vestiti che non mettiamo da anni, ma che non riusciamo a buttare. Perché dentro ci sono incollati dei momenti. Un’estate. Un amore. Una versione di noi che non vogliamo dimenticare. Oppure che stiamo cercando di ritrovare.

Altri vestiti invece li indossiamo anche quando non ci somigliano più. Come se volessimo convincerci che siamo ancora quelli lì. Ma qualcosa stona. Non è il taglio, né il tessuto: è che non ci rappresentano più.

E allora, forse, il punto non è cosa ci sta bene, ma cosa ci fa sentire veri.

Psicologia dell’abito

Se ci pensiamo, vestirsi è un atto terapeutico. Involontario, ma potentissimo. Usiamo i vestiti per proteggerci, per esporci, per mettere distanza o per cercare contatto. Una giacca troppo grande può diventare una corazza. Un colore acceso può essere un grido (o un tentativo di rinascita). E certe volte, quando finalmente ci sentiamo bene con noi stessi, ci accorgiamo che riusciamo a mettere anche quella camicia che avevamo sempre evitato.

È come se i vestiti fossero un ponte tra il nostro dentro e il nostro fuori. Un modo per riportare all’esterno qualcosa che non riusciamo ancora a dire. O magari nemmeno a capire del tutto.

Piccoli segnali di guarigione

Chi ha fatto terapia lo sa: il cambiamento avviene piano, a volte quasi in segreto. Ma si riflette. Anche nel modo in cui ci vestiamo. È lì, nei dettagli: scegliamo un colore nuovo. Lasciamo andare un capo che non ci somigliava più. O riscopriamo un vecchio vestito e ci entra di nuovo, ma stavolta con un’altra energia.

I vestiti non cambiano la vita, certo. Ma a volte la accompagnano.
E la raccontano, senza bisogno di spiegazioni.

L’armadio come stanza dell’anima

Forse allora vale la pena fermarsi ogni tanto. Guardare dentro l’armadio come si guarda dentro una stanza della propria mente. E chiedersi: cosa sto tenendo stretto? Cosa sto nascondendo? E cosa, invece, sono pronto a mostrare?

Non è solo un esercizio di stile. È un esercizio di presenza.

E se invece di seguire la moda ci ascoltassimo davvero? Se ci vestissimo non per piacere, ma per riconoscerci? Se ogni abito fosse una scelta consapevole di esistere, non un tentativo di imitare?

Conclusione (imprecisa come la vita)

Alla fine, forse non serve molto. Qualche capo che ci faccia sentire a casa. Uno che ci sfidi un po’. Uno che ci consoli. E la libertà di scegliere, ogni giorno, chi vogliamo essere.

Perché l’identità non è un concetto fisso. È un viaggio. E il modo in cui ci vestiamo è uno dei modi in cui ci raccontiamo quel viaggio. A noi stessi, prima di tutto.

E c’è un pensiero che, se lo condividi, merita di essere detto chiaramente: l’utente finale – chi si veste ogni giorno, chi apre il proprio armadio con l’inquietudine di chi non sa più chi è – non ha quasi mai la percezione che l’abito, o il vestirsi, possa essere uno strumento potentissimo per esprimere sé stessi.
Perché siamo ancora schiavi di modelli estetici tossici, di canoni imposti, di paragoni infiniti.

E, peggio ancora, del giudizio degli altri.

Eppure, basterebbe un gesto: smettere di vestirsi per piacere, e cominciare a vestirsi per piacersi.
Non per apparire, ma per tornare a essere.

Forse lì, davvero, comincia la libertà.

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra è un artista visivo e psicologo. Fotografa l’anima prima ancora dei volti. Ogni scatto è un atto di verità, un frammento di silenzio che vibra, un incontro autentico tra la sua sensibilità e l’essenza umana di ciò che ritrae. Le sue immagini non decorano, scavano. Non mostrano, rivelano. La moda è il suo lessico estetico: un universo che abita da anni, dove eleganza e identità si fondono in visioni che superano la superficie. Ma la macchina fotografica, per lui, è solo il mezzo. Il fine è più alto: far sentire, toccare, ricordare. Laurea in Psicologia, con un focus sulla psicologia sociale e sul potenziale evolutivo dell’essere umano. Questo non è un dettaglio biografico, è un orizzonte che trasforma il suo modo di guardare, ascoltare, raccontare. Le sue opere non parlano solo agli occhi, ma alle parti invisibili che ci compongono. E poi ci sono le parole. Le usa come una seconda lente, forse la più affilata. Ogni parola per lui pesa, pulsa, incide. Perché sa che quando immagine e linguaggio si incontrano, nasce qualcosa che può toccare profondamente, cambiare prospettiva, lasciare un segno. Il suo lavoro è questo: un intreccio di visione e coscienza, di luce e psiche. Un viaggio dentro l’umanità, per chi ha il coraggio di guardare davvero.

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