Articolo di: Gabriele Vinciguerra
Ci sono film che raccontano una storia, altri che provano a decifrare un’anima. A Complete Unknown di James Mangold non appartiene a nessuna di queste categorie.
Non è una biografia, non è un tributo nostalgico, né una celebrazione agiografica. È un viaggio, un tentativo di afferrare qualcosa che sfugge sempre, un’immersione in un’epoca in cui le parole contavano davvero, perché portavano con sé un peso, un’urgenza, una rivoluzione.
Timothée Chalamet non si è limitato a interpretare Bob Dylan: ha inseguito il suo enigma fino a diventarne parte. Il fatto che abbia voluto essere anche produttore del film racconta molto più di qualsiasi dichiarazione.
Si è lasciato risucchiare dal mistero di Dylan, da quell’impossibilità di definirlo, comprenderlo fino in fondo, e ha capito che era proprio lì, in quella zona grigia e sfuggente, che risiedeva la magia.
Il risultato è un film che vibra di un’energia indomabile, di un costante slittamento tra realtà e illusione, proprio come il suo protagonista.
C’è una scena che rimane incisa nella memoria, come un mantra dell’esistenza dylaniana: all’interno di un ascensore, qualcuno gli chiede chi voglia essere, e lui risponde con disarmante fermezza: “Qualsiasi cosa gli altri non vogliano che io sia”.
In quella frase si condensa l’essenza di un uomo che ha fatto della mutazione la sua unica costante, un’ombra inafferrabile che, proprio per questo, continua a brillare.
Il film mostra anche il lato più tormentato e intimo di Dylan, in particolare attraverso la sua complicata relazione con Sylvie Russo.
Un rapporto segnato da distanza, incomprensione e un perenne bisogno di fuga, come se avvicinarsi troppo significasse perdersi.
Ed è questa la cifra di A Complete Unknown: il protagonista resta perfetto sconosciuto per tutti, anche per chi gli era vicino, anche per chi ha condiviso con lui momenti di pura verità.
Mangold ci restituisce un’epoca pulsante, in cui la parola aveva ancora il potere di cambiare il mondo, in cui la musica era un atto di ribellione e non un semplice sottofondo.
Guardare questo film significa immergersi in quel tempo, respirarne l’aria densa di sogni e disillusioni, sentire il peso di ogni verso scritto da Dylan.
E ricordarsi di quel 2016, quando il Nobel per la Letteratura gli venne conferito, ma lui, coerente con la sua natura, non andò mai a ritirarlo. Perché un premio, un titolo, una definizione, non possono contenere ciò che è nato per essere libero.
Alla fine, non si esce da questo film con risposte. Non si esce con una verità su Dylan. Si esce con la stessa sensazione che lui stesso ha sempre lasciato dietro di sé: il desiderio di rincorrere qualcosa di irraggiungibile, di afferrare il vento, di ascoltare il suono di parole che hanno perso il loro peso nel tempo, ma che qui, per due ore, tornano a risuonare con tutta la loro struggente potenza.
Le emozioni vissute nel guardare questa pellicola non mi hanno mai abbandonato, e mentre scrivo queste parole, sento ancora l’eco di quelle immagini e di quelle sensazioni, come se la magia di quel viaggio non fosse ancora finita.