Editoriale di: Gabriele Vinciguerra
Ogni giorno camminiamo sul filo sottile tra il dovere d’essere e l’inganno dell’apparire. Ci hanno convinti che correre, sempre e senza sosta, sia un valore. Ci hanno insegnato che se non produci non conti, che se non ottimizzi ogni minuto sprechi la vita. Abbiamo interiorizzato questa regola al punto che ci sembra normale. Ma non lo è. Perché mentre inseguivamo questa “normalità”, ci siamo ammalati di ansia, stanchezza e vuoto.
Non è cominciata con i social. Loro hanno solo accelerato, amplificato, reso visibile. La frenesia ha radici più antiche. È nata quando ci hanno convinti che l’uomo libero fosse colui che non si ferma mai, che dorme poco, che deve sempre vincere la gara con il tempo. È nata quando il mito dell’efficienza ha preso il posto del mito della comunità. Da lì abbiamo iniziato a guardare agli altri come concorrenti, a noi stessi come imprese da gestire, ai giorni come investimenti da far fruttare.
Il sociologo francese Alain Ehrenberg ha descritto bene questo passaggio: la depressione, nella società contemporanea, non è più un malessere marginale ma il segno di una mutazione dell’individuo. La norma non è più la disciplina imposta dall’esterno, ma l’assunzione di responsabilità e l’iniziativa. In altre parole, il dovere di essere sé stessi diventa il fardello più pesante.
Byung-Chul Han, filosofo della società della stanchezza, è ancora più diretto: oggi ognuno di noi è lavoratore e padrone nello stesso corpo. Ci auto-sfruttiamo, convinti di essere liberi. Produciamo, performiamo, competiamo. Non esiste più un’autorità che ci opprime dall’esterno, perché abbiamo interiorizzato il comando. “Sii te stesso”, ci ripetono, ma ciò che intendono è “sfruttati fino a esaurirti, perché non basta mai”.
Questo modello è subdolo perché si presenta come libertà, ma è solo una prigione che ci divora. Lo vediamo nella vita quotidiana: un giorno libero che finisce tra scaffali di supermercati, lavatrici, faccende da sbrigare. Famiglie intere che trasformano il poco tempo che resta in un altro campo di battaglia. Ci siamo dimenticati che il tempo vuoto non è uno spreco, ma l’unico spazio fertile che ci resta.
Il silenzio, la lentezza, la contemplazione non sono capricci di chi ha tempo da perdere. Sono ossigeno. Senza di loro il corpo si esaurisce e la mente si spegne. Ma l’abbiamo dimenticato, perché siamo intrappolati nell’idea che la nostra dignità dipenda da quanto facciamo, non da quanto siamo.
Non siamo vittime ingenue. Abbiamo accettato questo veleno e lo abbiamo chiamato vita. Abbiamo interiorizzato il dogma che ci vuole efficienti e sorridenti al lavoro, ma esausti e senza respiro a casa. Abbiamo persino smesso di concederci il diritto al riposo, come se fosse un lusso o un peccato.
Eppure la scelta di ribellarsi esiste. Possiamo decidere di non correre più per gli standard che ci hanno imposto. Possiamo restituirci il diritto al silenzio, all’ombra, al vuoto. Possiamo ricostruire un patto diverso con il tempo, uno spazio che non sia governato dall’urgenza, ma dal respiro. Non è disconnettersi da tutto, ma riconnettersi a noi stessi. Fermarsi. Guardare il cielo senza sentirsi in colpa. Sedersi su un divano senza pensare di dover “recuperare” dopo. Dare valore al semplice atto di esistere.
C’è una luce che meritiamo di vedere e che oggi è offuscata da bisogni che non sono nostri. Una luce che non dobbiamo aspettare dall’esterno, ma che possiamo evocare dentro di noi. Perché la vita non è un curriculum da compilare, né una corsa a ostacoli da superare. È una poesia che chiede di essere abitata, con lentezza e dignità.
Se continuiamo a inseguire il mito dell’efficienza e del non dormire per non perdere tempo, saremo solo schiavi di noi stessi. Prendere coscienza non è un gesto romantico, è un atto di ribellione. Prima di essere modelli che il mondo pretende, siamo vite che meritano rispetto.
Smetti di correre per chi non sei. Torna a respirare. Torna presente, anche se il passo è imperfetto. Custodisci la luce che abita in te. È il pieno del tuo diritto di esistere.











