Articolo di: Gabriele Vinciguerra
Ci sono momenti nella storia in cui il potere smette di avere visione e si riduce a manutenzione del presente. È il segno di una società che non cresce più, che ha scambiato la direzione per l’immobilità.
Da anni la politica appare come un corpo che si protegge da se stesso, mentre il pensiero si ritira nei margini: nella cultura, nell’arte, nella psicologia, in tutto ciò che ancora osa interrogarsi.
Carl Gustav Jung ricordava che “non diventiamo illuminati immaginando figure di luce, ma rendendo consapevole la nostra ombra”.
E se la società non affronta la propria ombra, la politica continuerà a rappresentarla: un riflesso statico di paure collettive, di adattamenti, di rinunce.
L’omeostasi della mente vale anche per le istituzioni.
Ogni sistema tende a preservarsi, anche a costo di bloccare la crescita.
Il cambiamento autentico non fallisce per mancanza di idee, ma per paura del caos che ogni trasformazione comporta.
Così il potere, come l’individuo, si aggrappa all’abitudine. Evita il rischio, nasconde il vuoto dietro parole che imitano l’azione.
Nel tempo, la politica ha sostituito la visione con la gestione.
Non propone più orizzonti, ma soluzioni momentanee.
Non educa, ma comunica.
Non guida, ma conserva.
Ogni ciclo elettorale diventa un esercizio di sopravvivenza, non di coraggio.
E in questa sopravvivenza la parola “riforma” si svuota, trasformandosi in un rituale linguistico.
Si parla di cambiamento per simularlo, mentre sotto la superficie tutto resta identico.
Erich Fromm, ne La paura della libertà, aveva previsto questa deriva: la libertà spaventa, perché implica responsabilità.
Molti cittadini preferiscono lamentarsi dell’inerzia piuttosto che attraversare il cambiamento.
È un istinto primordiale: l’essere umano cerca stabilità anche dentro un sistema che non funziona.
Meglio la sicurezza della consuetudine che la vertigine dell’autenticità.
Il risultato è una società che produce efficienza ma non crescita, informazione ma non comprensione.
Una società che sa tutto ma non sente più nulla.
Non per mancanza di intelligenza, ma per mancanza di tempo interiore.
E dove non c’è introspezione, il potere resta indisturbato.
Carl Rogers lo spiegava con chiarezza: “L’unico apprendimento che influenza davvero il comportamento è quello scoperto da sé”.
Ma chi non viene educato a scoprire, bensì solo a ripetere, non svilupperà mai autonomia critica.
È per questo che la politica non investe nella coscienza.
Non le conviene.
Un cittadino lucido, emotivamente alfabetizzato, capace di pensiero critico, è meno manipolabile.
Meglio formare individui efficienti ma docili: tecnicamente preparati, ma psicologicamente fragili.
È il paradosso perfetto della modernità.
Una collettività che funziona, ma non evolve.
Che lavora, ma non comprende.
Che parla di futuro, ma vive nel presente perpetuo.
Eppure, proprio dove la politica arretra, la cultura può rinascere.
Quando il potere rinuncia alla crescita interiore, la responsabilità passa alla parola, alla fotografia, alla psicologia, all’arte.
A chi restituisce senso, non status.
Le vere rivoluzioni non nascono nei partiti, ma nei luoghi invisibili dove si coltiva consapevolezza.
Ogni lezione, ogni libro, ogni dialogo autentico è una forma di resistenza al torpore collettivo.
In fondo, la psicologia è questo: un atto di libertà.
Un modo per restituire alle persone la percezione di sé, del proprio valore, della propria voce.
Una società che ritrova la propria sovranità interiore non può più essere ingannata dalla retorica.
E quando la coscienza diventa collettiva, il potere non può che cambiare linguaggio.
Maslow lo aveva sintetizzato in una frase che oggi suona come un monito: “Ciò che un uomo può essere, deve esserlo.”
Vale anche per le società.
Una civiltà che rinuncia a evolvere tradisce la propria natura più profonda.
Il cambiamento non arriverà dall’alto.
Non nascerà da una riforma, ma da una moltitudine che torna a pensare e sentire con profondità.
Perché la coscienza, una volta accesa, non si spegne.
E quando la luce si diffonde, non serve più la rivoluzione: basta la verità.












