Editoriale di: Gabriele Vinciguerra

In un mondo dove la realtà si costruisce a colpi di tweet (X), e dove la menzogna è diventata un asset politico, l’indignazione non solo è rara: è derisa. Il vero scandalo non è più ciò che si dice, ma il fatto che nessuno reagisca. Peggio: che ci si abitui. Il silenzio non è più una forma di prudenza. È un atto di complicità.

La legittimità del falso: dalla bugia alla strategia

Donald Trump è l’architetto di una nuova era comunicativa. Non mente per errore: mente per scelta, mente per strategia. Secondo il Washington Post, durante il suo mandato ha diffuso oltre 30.000 affermazioni false o fuorvianti. Non solo ha normalizzato la menzogna, ma l’ha istituzionalizzata.

Chi lo accusa? Viene tacciato di faziosità. Chi lo contraddice? Etichettato come parte del “deep state”. Chi lo smentisce? Ignorato. Così, l’informazione si dissolve, e al suo posto nasce il delirio controllato, dove tutto è interpretabile e nessuno è responsabile.

Psicologia della manipolazione: la massa che applaude

Trump non convince, seduce. Non informa, polarizza. Utilizza leve psicologiche primitive: la paura del diverso, la nostalgia per un passato idealizzato, l’identificazione col leader “fuori dal sistema”. Quello che dice non deve essere vero: deve sembrare autentico.

E funziona. Perché l’uomo medio, bombardato da stimoli, cerca scorciatoie cognitive. Vuole sentirsi rassicurato, non informato. E quando la complessità del reale è opprimente, chi la banalizza appare come un salvatore.

In psicologia si chiama disimpegno morale: l’individuo si deresponsabilizza, demandando al leader la fatica del pensiero critico.

Perché nessuno si oppone?

Responsabilità politica: la codardia travestita da strategia

I leader repubblicani, pur conoscendo l’inconsistenza delle sue dichiarazioni, tacciono o assecondano, pur di non perdere l’elettorato. I democratici, incapaci di parlare al cuore degli elettori, oscillano tra tecnicismi e moralismi sterili. Risultato: lui detta l’agenda. Gli altri la subiscono.

Responsabilità mediatica: il giornalismo prostituito all’audience

Trump è una macchina da click. Ogni sua uscita, anche la più aberrante, viene amplificata. Perché? Perché la verità non paga quanto l’indignazione a comando. Così, la cronaca si fa spettacolo, e il giornalismo perde il suo ruolo di cane da guardia della democrazia.

Responsabilità sociale: la resa del pensiero critico

Viviamo nell’epoca della post-verità: la percezione vale più del fatto. La bugia, se detta con sicurezza, è più convincente di una verità esitante. E la ripetizione diventa verità condivisa.

Chi dovrebbe ribellarsi? Noi. I cittadini. Ma la psicologia di massa è chiara: davanti a un sistema opprimente, si tende alla conformità o alla fuga. Così si accetta il peggio come inevitabile.

Il caos come metodo: il caso dei dazi

I dazi sono l’esempio perfetto della strategia trumpiana: annunciare, ritrattare, contraddire, e ricominciare. Il messaggio non è la coerenza: è l’imprevedibilità. In questo modo, Trump crea uno scenario di instabilità dove solo lui sembra possedere la bussola.

Ma a ben vedere, l’unico ordine che genera è quello del caos utile. Utile a:

  • controllare la narrativa
  • spaventare il nemico
  • consolidare la fedeltà dei suoi

I beneficiari del disastro

  • Trump, che trasforma ogni crisi in show.
  • I media, che vendono adrenalina più che notizie.
  • Le multinazionali, che si adattano alle oscillazioni regolative per guadagnare.

Tutti guadagnano. Tranne la democrazia.

Il costo psicosociale

L’effetto più grave non è politico. È culturale. È psicologico.

  • La normalizzazione della menzogna.
  • L’anestesia emotiva dell’opinione pubblica.
  • L’apatia civile di intere generazioni.

Quando tutto è falso, nulla è importante. E quando nulla importa, la libertà diventa un concetto vuoto.

L’ultima scelta

Non è più tempo di analisi moderate. Non è più tempo di dubbi prudenti. Chi oggi tace, sarà complice domani.

O si sceglie di stare dalla parte della verità, della coerenza, della responsabilità… oppure si accetta di vivere in un mondo dove la bugia è legge e la dignità un lusso per pochi.

 

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra è un artista visivo e psicologo. Fotografa l’anima prima ancora dei volti. Ogni scatto è un atto di verità, un frammento di silenzio che vibra, un incontro autentico tra la sua sensibilità e l’essenza umana di ciò che ritrae. Le sue immagini non decorano, scavano. Non mostrano, rivelano. La moda è il suo lessico estetico: un universo che abita da anni, dove eleganza e identità si fondono in visioni che superano la superficie. Ma la macchina fotografica, per lui, è solo il mezzo. Il fine è più alto: far sentire, toccare, ricordare. Laurea in Psicologia, con un focus sulla psicologia sociale e sul potenziale evolutivo dell’essere umano. Questo non è un dettaglio biografico, è un orizzonte che trasforma il suo modo di guardare, ascoltare, raccontare. Le sue opere non parlano solo agli occhi, ma alle parti invisibili che ci compongono. E poi ci sono le parole. Le usa come una seconda lente, forse la più affilata. Ogni parola per lui pesa, pulsa, incide. Perché sa che quando immagine e linguaggio si incontrano, nasce qualcosa che può toccare profondamente, cambiare prospettiva, lasciare un segno. Il suo lavoro è questo: un intreccio di visione e coscienza, di luce e psiche. Un viaggio dentro l’umanità, per chi ha il coraggio di guardare davvero.

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