Disagio Sociale

Articolo di: Gabriele Vinciguerra

La società crolla, la politica litiga, lo Stato scompare. E intanto la violenza diventa normalità.

Il coltello in tasca, lo Stato in fuga

C’è chi ancora osa chiamarla “emergenza”. Ma qui non siamo più nell’emergenza. Siamo nella metastasi. La società è malata. E lo è da tempo. Solo che adesso non si può più nascondere.

Basta farsi un giro in treno, entrare in una stazione qualunque, ascoltare una conversazione fuori da una scuola. I coltelli non sono eccezioni: sono compagnia abituale. Ragazzini con la lama in tasca, pronti a usarla. Non per bisogno. Non per fame. Per rabbia. Per noia. Perché nessuno ha insegnato loro cosa si può fare e cosa no. Perché nessuno li ha mai fermati prima.

Nessuna autorità. Solo scuse.

La verità è che lo Stato ha abbandonato il territorio. La polizia locale, quando c’è, si occupa di multe. Il presidio reale, quello che serve per garantire sicurezza, non esiste più. E se succede qualcosa? La risposta è sempre la stessa: “Abbiamo le mani legate”. “Non possiamo intervenire”. “Manca il personale”.

Bene. E allora chi protegge i cittadini? Nessuno.

Politica e giustizia si prendono a schiaffi. Il resto può anche morire.

Nel frattempo, la politica fa il suo solito gioco di specchi. Sinistra e destra si insultano, si accusano, si paralizzano a vicenda. Ogni episodio di violenza diventa una scusa per urlare in TV. Nessuno risolve, tutti cavalcano.

La giustizia? Biblica nei tempi. Quando parte, è già tardi. E comunque, spesso non arriva. Perché i reati si prescrivono. I processi si arenano. Gli arrestati tornano in strada, talvolta più aggressivi di prima. Lo sappiamo tutti. Ma facciamo finta di non vedere.

Inasprimento delle pene:
la foglia di fico

Hanno pure provato a inasprire alcune pene. A irrigidire qualche norma. E allora? Ha funzionato? No. Perché chi vive nella violenza non ha paura del codice penale. Non lo legge, non lo conosce, non gli interessa.

Pensare che basti aumentare gli anni di carcere per fermare tutto questo è un’illusione comoda. Un modo per dire “abbiamo fatto qualcosa” senza fare niente.

Famiglie evaporate. Scuola sola.

Le famiglie in molti casi non esistono. Genitori assenti, distratti, stanchi, confusi. Ragazzi che crescono senza limiti, senza affetti veri, senza nessuno che sappia dire: “No. Questo non si fa”.

E allora tutto ricade sulla scuola. Che però è stata abbandonata a sé stessa. Le chiediamo di fare tutto: educare, rieducare, prevenire, accogliere, contenere. Ma senza strumenti. Senza supporto. Senza rispetto.

Dove vogliamo arrivare?

La verità è che non c’è più tempo. Il problema non è solo grave: è già esploso. E ogni giorno che passa senza un cambio radicale ci condanna un pezzo di più.

Servono presidi reali, giustizia rapida, famiglie presenti, educazione vera. Serve che qualcuno torni ad avere il coraggio di dire le cose come stanno. Basta negare. Basta rimandare.

Perché se un ragazzino col coltello vale più della scuola, della legge e dello Stato, allora non c’è più futuro da salvare.
C’è solo un presente da fermare. Prima che sia davvero troppo tardi.

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra è un artista visivo e psicologo. Fotografa l’anima prima ancora dei volti. Ogni scatto è un atto di verità, un frammento di silenzio che vibra, un incontro autentico tra la sua sensibilità e l’essenza umana di ciò che ritrae. Le sue immagini non decorano, scavano. Non mostrano, rivelano. La moda è il suo lessico estetico: un universo che abita da anni, dove eleganza e identità si fondono in visioni che superano la superficie. Ma la macchina fotografica, per lui, è solo il mezzo. Il fine è più alto: far sentire, toccare, ricordare. Laurea in Psicologia, con un focus sulla psicologia sociale e sul potenziale evolutivo dell’essere umano. Questo non è un dettaglio biografico, è un orizzonte che trasforma il suo modo di guardare, ascoltare, raccontare. Le sue opere non parlano solo agli occhi, ma alle parti invisibili che ci compongono. E poi ci sono le parole. Le usa come una seconda lente, forse la più affilata. Ogni parola per lui pesa, pulsa, incide. Perché sa che quando immagine e linguaggio si incontrano, nasce qualcosa che può toccare profondamente, cambiare prospettiva, lasciare un segno. Il suo lavoro è questo: un intreccio di visione e coscienza, di luce e psiche. Un viaggio dentro l’umanità, per chi ha il coraggio di guardare davvero.

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