Rick Owens

Articolo di: Gabriele Vinciguerra

“per chi non si veste: si espone”

Rick Owens non si limita a disegnare abiti. Rick Owens costruisce mondi. Ogni capo, ogni linea, ogni sfilata è una dichiarazione di esistenza, un gesto radicale, una scultura cucita sull’idea che la moda non sia superficie, ma carne viva.
C’è qualcosa di tribale, di ultraterreno, di mitologico nel suo lavoro. Ma anche qualcosa di profondamente umano, vulnerabile, fragile. Owens non veste. Owens interroga.

Lo fa con spigoli. Con nero. Con volumi che travolgono e forme che sfidano la logica. Con proporzioni che stravolgono il corpo e, proprio per questo, lo liberano.

Un’estetica che non cerca approvazione

Rick Owens non ha mai chiesto il permesso. Fin dal principio ha preferito stare ai margini, disegnando per chi sente il bisogno di esprimere qualcosa che non sa dire a parole. Le sue collezioni non cercano bellezza nel senso classico del termine: cercano verità. E la verità, spesso, non è comoda.

C’è potenza nei suoi capi. Ma anche dolore. Ogni giacca strutturata, ogni pantalone scomposto, ogni anfibio monumentale porta con sé una specie di grido muto: “Lasciatemi essere come sono”.

E dietro a tutto questo, c’è lui. Rick. Un uomo che ha attraversato i propri abissi per arrivare a una forma estetica che è anche una forma di guarigione.

Il corpo come linguaggio

Per Rick Owens, il corpo non è mai qualcosa da coprire. È un mezzo per comunicare. Un contenitore spirituale. Un manifesto. Nei suoi show, il corpo è libero di mostrarsi per quello che è: muscoloso, magro, fragile, diverso. Fuori norma, fuori misura, fuori catalogo.

Eppure, perfettamente vero.

Le sue passerelle sono momenti di rottura: rituali, performance, esperienze visive che mettono in discussione ogni canone. Ha portato sul palco ballerine con i capelli rasati, modelle che si portavano una sull’altra come a costruire una nuova specie di essere umano. Rick Owens non racconta il corpo ideale. Racconta il corpo necessario.

L’uomo dietro l’icona

Con il volto spigoloso, i capelli lunghi e lo sguardo magnetico, Rick Owens è diventato un’icona. Ma sotto quell’immagine c’è una personalità complessa, intensa, a tratti contraddittoria. Owens è spirituale, filosofico, ironico. Parla spesso della morte, del tempo, del bisogno di distruggere per ricreare. È un artista che non ha mai smesso di confrontarsi con sé stesso.

Il suo lavoro non è mai stato puro esercizio di stile: è una ricerca continua. Di senso. Di equilibrio tra eccesso e ordine. Di una forma che sia più di una forma.

Moda come architettura interiore

Le sue collezioni sono costruite come cattedrali. Ogni dettaglio è pensato, ogni tessuto è scelto con la precisione di chi sa che anche una cucitura può raccontare un’intera filosofia. La sua estetica brutalista – fatta di materiali grezzi, spessori scultorei, geometrie estreme – è una sfida.
Un invito a spogliarsi dei ruoli, a riscrivere il corpo, a ridefinire il concetto stesso di abito.

Chi indossa Rick Owens non lo fa per apparire. Lo fa per riconoscersi. O per sopravvivere. Per urlare silenziosamente la propria unicità, anche quando fa paura.

Nessuna concessione

Owens non si è mai piegato. Non ha mai seguito un trend. Non ha mai addolcito la sua visione. Ha costruito un impero senza tradire il bambino punk e solitario che era. Il ragazzo che si aggirava per la California, in lotta con la propria pelle e con l’idea stessa di normalità.

E oggi, pur essendo celebrato, premiato, collezionato, resta fedele a sé stesso. Anzi, continua a spingersi oltre, come se la moda fosse un mezzo per esplorare qualcosa di sacro e viscerale allo stesso tempo.

Un atto d’amore selvaggio

Rick Owens non vuole piacere a tutti. Ma chi lo comprende, lo ama. Perché nei suoi abiti si sente qualcosa di raro: una tensione emotiva autentica, una necessità. Non una strategia.

Vestirsi con Rick Owens è un atto d’amore verso ciò che siamo quando non ci giudichiamo più. È abbandonare il bisogno di essere compresi. È scegliere di esistere, nella pienezza e nella contraddizione.

E in un mondo che ci chiede costantemente di moderarci, Rick Owens è la voce che ci ricorda che a volte il modo più puro di vivere è quello più estremo.

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra è un artista visivo e psicologo. Fotografa l’anima prima ancora dei volti. Ogni scatto è un atto di verità, un frammento di silenzio che vibra, un incontro autentico tra la sua sensibilità e l’essenza umana di ciò che ritrae. Le sue immagini non decorano, scavano. Non mostrano, rivelano. La moda è il suo lessico estetico: un universo che abita da anni, dove eleganza e identità si fondono in visioni che superano la superficie. Ma la macchina fotografica, per lui, è solo il mezzo. Il fine è più alto: far sentire, toccare, ricordare. Laurea in Psicologia, con un focus sulla psicologia sociale e sul potenziale evolutivo dell’essere umano. Questo non è un dettaglio biografico, è un orizzonte che trasforma il suo modo di guardare, ascoltare, raccontare. Le sue opere non parlano solo agli occhi, ma alle parti invisibili che ci compongono. E poi ci sono le parole. Le usa come una seconda lente, forse la più affilata. Ogni parola per lui pesa, pulsa, incide. Perché sa che quando immagine e linguaggio si incontrano, nasce qualcosa che può toccare profondamente, cambiare prospettiva, lasciare un segno. Il suo lavoro è questo: un intreccio di visione e coscienza, di luce e psiche. Un viaggio dentro l’umanità, per chi ha il coraggio di guardare davvero.

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