Intervista di: Gabriele Vinciguerra
C’è un momento, nel percorso di chi vive d’immagine, in cui lo specchio smette di restituirti solo la forma e comincia a parlarti. Non del volto, ma di tutto ciò che il volto contiene.
È lì che il corpo diventa linguaggio. Un codice intimo fatto di respiri, silenzi, piccole verità che sfuggono al controllo.
Federica Colombo vive la moda come un atto di presenza, non di apparenza. Nei suoi scatti, il corpo non posa: racconta. La vulnerabilità si trasforma in forza, la disciplina diventa ascolto, la bellezza smette di essere superficie e torna ad abitare la pelle.
In questo dialogo, tra moda e consapevolezza, Federica si rivela per ciò che è: una donna che non interpreta un’immagine, ma la attraversa.
Il corpo è spesso visto come un mezzo. Per te, che vivi di immagine, è anche un linguaggio. Quando hai iniziato a percepire che il corpo poteva raccontare più della voce?
Credo di averlo capito col tempo, quando ho smesso di mettermi in posa e ho iniziato ad ascoltarmi davvero. All’inizio pensavo che il corpo servisse solo a mostrare qualcosa, a dire “eccomi”. Poi ho scoperto che, se lo lasci parlare, racconta molto di più. Ci sono scatti in cui non ho detto una parola, eppure dentro quel gesto c’era tutto: la mia paura, la mia forza, la mia verità. Da lì ho capito che il corpo non va usato, va abitato.
In un settore dove tutto ruota intorno all’apparenza, cosa ti aiuta a restare autentica, senza confondere chi sei con ciò che mostri?
Restare autentica è un lavoro quotidiano. In questo mondo è facile perdersi, basta un like in più o uno sguardo che ti fa dubitare. Quello che mi salva è ricordarmi chi sono quando non c’è nessuno a guardarmi. Se mi riconosco anche senza il riflesso di una foto, allora so che sto mostrando qualcosa di vero. L’autenticità non è non mostrarsi, è non fingere.
Ogni scatto porta con sé una vulnerabilità, anche quando sembra perfetto. Ti capita di riconoscerti più nelle imperfezioni che nei risultati finiti?
Sempre. Le foto perfette mi mettono distanza. Mi piacciono di più quelle in cui qualcosa sfugge, un’espressione non controllata, una piega strana del corpo. Lì c’è la vita. Nelle imperfezioni ritrovo il mio lato più sincero, quello che non cerca di piacere ma solo di esserci.
La moda, oggi, è un continuo equilibrio tra estetica e consapevolezza. Tu come scegli cosa rappresentare, e cosa invece proteggere da chi guarda?
Scelgo in base a come sto. Se qualcosa mi risuona, lo mostro. Se invece tocca parti più intime, lo tengo per me. Ho imparato che non tutto deve essere visibile per essere vero. Alcune cose hanno bisogno di restare dietro le quinte, dove nessuno le giudica. La moda mi serve per esprimere, ma non per esporre tutto.
In che modo il Pilates, che pratichi e insegni, ha cambiato il tuo rapporto con il corpo e la mente? C’è una connessione psicologica tra disciplina fisica e stabilità emotiva?
Il Pilates mi ha rimesso in contatto con il corpo. Prima era solo uno strumento di lavoro, oggi è un luogo dove torno per respirare. Quando insegno, cerco di far capire che non è una serie di esercizi, è un modo per centrarsi. Il respiro ti riporta al presente, ti insegna equilibrio. È una disciplina che ti educa anche fuori dallo studio, nelle giornate che ti scompongono.
Lavorare come modella richiede una costante esposizione. Ti è mai capitato di sentirti osservata ma non vista?
Sì, ma meno di quanto si pensi. Ho avuto la fortuna di lavorare con persone che cercano l’essenza, non solo la forma. A volte capita che qualcuno si fermi all’apparenza, ma quando sul set si crea una vera connessione, lo sguardo cambia. Ti senti vista, non guardata. E quella differenza si percepisce anche nella foto finale.
Il mondo dei social ti rappresenta o ti limita? E come gestisci la differenza tra ciò che condividi e ciò che tieni per te?
I social mostrano una parte di me, non tutta. Li uso per condividere ciò che mi appartiene, ma non lascio che diventino la misura di chi sono. C’è sempre un filtro, e va bene così. La vita vera è altrove, nei momenti che non fotografi. Pubblico quando sento che qualcosa mi somiglia, e taccio quando ho bisogno di silenzio.
Qual è, secondo te, la più grande fragilità del mondo della moda oggi? E la più grande verità?
La fragilità è la paura di non bastare. La corsa alla perfezione svuota, toglie respiro. Tutti cercano autenticità, ma pochi reggono il peso di mostrarla davvero. La verità, invece, è che la moda può essere un linguaggio potentissimo se smetti di usarla per nasconderti. Quando un abito diventa parte della tua storia, allora sì, racconta.
Se dovessi definire la bellezza in una sola parola, quale sceglieresti? E perché?
Presenza.
Perché la bellezza non è posa, è esserci. È quando il corpo, lo sguardo e l’anima vanno nella stessa direzione. Non ha bisogno di luci, si sente anche in silenzio.
Nella vita privata condividi il quotidiano con un compagno che è anche modello. È più facile o più complesso amare qualcuno che vive la stessa esposizione estetica?
Entrambe le cose. Ci capiamo al volo, ma dobbiamo anche ricordarci che dietro l’immagine ci sono due persone vere, con paure, giorni stanchi, difese. A volte serve staccare da tutto, tornare a essere solo noi. Quando lo facciamo, l’amore respira di nuovo.
Quando due persone lavorano con l’immagine, si rischia di guardarsi attraverso la lente del mestiere. Come riuscite a restare voi, al di là dello sguardo degli altri?
Spegnendo quella lente. A casa non c’è set, non c’è trucco. Ci sono le piccole cose: cucinare, ridere, stare zitti. È lì che ci riconosciamo davvero. La normalità è la nostra ancora.
Guardando avanti, cosa desideri costruire di tuo, che vada oltre la fotografia e resti anche quando i riflettori si spengono?
Vorrei creare spazi che parlino, luoghi che raccontino emozioni senza bisogno di immagini. Il design mi permette di farlo. Penso spesso a come rendere visibile l’equilibrio, come dare forma alla quiete. In fondo, che sia una stanza o una foto, cerco la stessa cosa: lasciare una traccia sincera, qualcosa che resti quando tutto il resto svanisce.














