Crepet

Articolo di: Gabriele Vinciguerra

C’è un uomo che, nel mezzo della confusione collettiva, parla con un tono fermo e diretto. Non sussurra, non addolcisce, non cerca applausi facili. Paolo Crepet ha quella voce che non chiede il permesso. O la ami o la rifiuti. Ma non puoi ignorarla.

E allora, perché oggi un personaggio come lui scuote così tanto? Perché in un mondo saturo di psicologi da social, life coach improvvisati, consigli motivazionali da quattro soldi e slogan da reels, Crepet taglia con l’accetta e restituisce un’immagine cruda e autentica della realtà. Scomoda, certo. Ma necessaria.

È un intellettuale atipico. Non vuole piacere. Non si veste da influencer della mente. Parla con la rabbia contenuta di chi conosce il disagio, con l’autorità di chi la psiche l’ha studiata, sezionata, incontrata in trincea. Non vende benessere, non offre scorciatoie. Ti chiede piuttosto di fermarti. Guardarti. Domandarti davvero chi sei. E non è roba per deboli di cuore.

Ma la domanda che torna, ciclica, è sempre la stessa: i giovani lo ascoltano davvero? Lo comprendono? O lo guardano come si osserva un vecchio prof in pensione, un po’ scorbutico e un po’ geniale, che ti dice esattamente ciò che non vuoi sentirti dire?

Perché Crepet non accarezza. Lui denuncia l’assenza di padri, di adulti coraggiosi, di insegnanti che sappiano farsi guida e non solo spettatori. Mette il dito nella piaga dell’educazione liquida, della fragilità emotiva, della gratificazione immediata. Scuote gli adulti che si vestono da adolescenti e i ragazzi che si illudono di sapere tutto prima di vivere davvero qualcosa.

Il problema però è che in questa epoca di iperconnessione e narcisismo digitale, le parole forti non sempre sfondano. Spesso si trasformano in meme. Vengono ridotte, tagliate, decontestualizzate. L’intensità di un discorso diventa virale per il tono, non per il contenuto. Eppure, sotto il rumore, qualcosa resta.

Il suo messaggio, anche se rifiutato, semina. Non è immediato. Non ha like garantiti. È una scossa che ti arriva giorni dopo, magari in silenzio. Quando sbatti contro un muro. Quando ti accorgi che nessuno ti aveva mai detto certe verità. O che, forse, le avevi solo ignorate.

Perché Crepet parla a chi ha il coraggio di sentirsi dire che la vita non si addomestica. Che le emozioni non si likeano. Che la fatica serve. Che il dolore va ascoltato e non scrollato via.

E in questo, paradossalmente, è più vicino ai giovani di quanto non sembri. Perché dietro la corazza cinica di questa generazione iperconnessa c’è una fame disperata di autenticità. Di verità nude. Di adulti che non fingano. Di qualcuno che sappia ascoltare senza paura e parlare senza filtri. E quando trovano questo, magari lo respingono all’inizio. Ma poi ci tornano. Ci pensano. E iniziano, lentamente, a mettere in dubbio l’idea di benessere veloce che il mondo gli ha venduto.

Crepet è un dito nella coscienza. Una voce che non si piega al politicamente corretto. Che parla di responsabilità, disciplina, autonomia. Parole scomode, certo. Ma fondamentali in una società dove tutto è diventato negoziabile, perfino l’identità.

E c’è qualcosa di profondamente psicosociale nella sua figura. È il simbolo di una nostalgia educativa, il bisogno inconscio collettivo di un’autorità che non sia autoritaria ma autorevole. Una figura che sappia dare limiti, che insegni a sopportare le frustrazioni, che dia valore alla resilienza senza mitizzare la sofferenza.

Ma forse il nodo sta proprio qui: Crepet fa paura perché toglie al pubblico l’alibi. Parla di padri assenti e figli smarriti. Ma non li giustifica. Non li coccola. Non offre rifugi. Dice: il mondo è complesso, non ti spetta nulla, non sei speciale. Però puoi diventarlo. Se impari a stare dritto. A cadere senza crollare. A scegliere invece di reagire.

In un tempo dove tutto è fluido, lui resta granitico. Dove tutto è selfie, lui è specchio. Dove tutto è algoritmo, lui è istinto. In una società che ha fatto della psicologia un contenuto da story, Crepet riporta tutto alla carne, al sangue, al cuore. Ricorda che prima di “funzionare”, bisogna vivere. Che non si cresce solo attraverso il benessere, ma anche, e forse soprattutto, nell’attraversare il dolore senza farsene definire.

Il suo impatto non si misura in visualizzazioni. Si misura nei silenzi che lascia dopo aver parlato. Nelle coscienze che inizia a scomodare. Negli adulti che finalmente si fanno domande. Nei ragazzi che iniziano a dubitare di ciò che il mondo gli ha raccontato.

È una voce necessaria, anche quando disturba. O forse, proprio per questo.

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra è un artista visivo e psicologo. Fotografa l’anima prima ancora dei volti. Ogni scatto è un atto di verità, un frammento di silenzio che vibra, un incontro autentico tra la sua sensibilità e l’essenza umana di ciò che ritrae. Le sue immagini non decorano, scavano. Non mostrano, rivelano. La moda è il suo lessico estetico: un universo che abita da anni, dove eleganza e identità si fondono in visioni che superano la superficie. Ma la macchina fotografica, per lui, è solo il mezzo. Il fine è più alto: far sentire, toccare, ricordare. Laurea in Psicologia, con un focus sulla psicologia sociale e sul potenziale evolutivo dell’essere umano. Questo non è un dettaglio biografico, è un orizzonte che trasforma il suo modo di guardare, ascoltare, raccontare. Le sue opere non parlano solo agli occhi, ma alle parti invisibili che ci compongono. E poi ci sono le parole. Le usa come una seconda lente, forse la più affilata. Ogni parola per lui pesa, pulsa, incide. Perché sa che quando immagine e linguaggio si incontrano, nasce qualcosa che può toccare profondamente, cambiare prospettiva, lasciare un segno. Il suo lavoro è questo: un intreccio di visione e coscienza, di luce e psiche. Un viaggio dentro l’umanità, per chi ha il coraggio di guardare davvero.

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