borsa gucci

Articolo di: Gabriele Vinciguerra

C’è stato un tempo in cui la moda era attesa. Silenzio prima dell’apparizione, rito collettivo che non poteva essere accelerato. Era un momento che non si consumava in streaming, ma in presenza. Una liturgia che teneva insieme corpo e identità, tessuto ed essenza. Oggi quel tempo sembra spezzato.

Il sistema moda ha corso troppo. Collezioni continue, capsule senza respiro, logica da catena di montaggio. Il mercato ha imposto la velocità come dogma, dimenticando che la creatività ha bisogno di silenzio, di vuoti, di ferite da elaborare. Lo sottolinea Lipovetsky: la moda è il regno dell’“iperconsumo”, dove l’istante domina e l’obsolescenza è programmata non solo nei prodotti, ma nelle emozioni. Barthes già lo intuiva: l’abito non è mai solo un oggetto, è un linguaggio. E quando il linguaggio diventa troppo veloce, perde significato, diventa rumore.

Le maison hanno vissuto questa accelerazione sulla pelle. Non solo i creativi, ma intere strutture, costrette a produrre a un ritmo che erode l’immaginazione. Vogue Business ha documentato lo stress cronico degli addetti ai lavori, mentre Third Bridge ha evidenziato il rischio più grande: l’appiattimento. Collezioni simili, linee create più per garantire entrate immediate che per raccontare verità. La moda, nata come esplosione di identità, è diventata un algoritmo.

È in questa crisi che vanno lette le mosse di tre marchi cardine: Proenza Schouler, Gucci, Saint Laurent. Non semplici strategie aziendali, ma gesti psicologici e sociali. Tentativi di difendere l’essenza, di trasformare il trauma in possibilità.

Proenza Schouler ha scelto la via del distacco consapevole. Jack McCollough e Lazaro Hernandez hanno lasciato la direzione creativa, restando però nel cuore strategico del marchio. Non è resa, ma resistenza. Un riconoscere che la creatività non può sopravvivere se viene trattata come una macchina da consegne. È la scelta di proteggere l’identità da un logoramento che non produce più visione, ma solo merce. In termini psicologici è un atto di resilienza: fermarsi per non perdere se stessi, separare il ruolo operativo dall’essenza originaria. La loro decisione risuona come una presa di coscienza collettiva: la moda non può continuare a correre senza fiato.

Gucci è l’emblema del trauma. Dopo la sbornia creativa di Alessandro Michele, il brand ha cercato un nuovo equilibrio, prima con Sabato De Sarno, poi con Demna. Ma i tempi concessi sono stati troppo brevi. Due anni non bastano a costruire una visione, appena sufficienti a produrre collezioni di passaggio. Il rischio è quello che Sennett chiama “corrosione del carattere”: quando la logica dell’immediatezza dissolve ogni possibilità di continuità. Gucci ha dovuto affrontare il dolore di un’identità smarrita, ridotta a oscillare tra picchi e crolli.

Il nuovo CEO Stefano Cantino cerca di stabilizzare il corpo del marchio, ma il problema resta profondo: come ridare coerenza a un brand che il mercato ha trasformato in una creatura frammentata? La risposta di Gucci è duplice. Da un lato la sostenibilità, con Gucci Equilibrium, l’impegno verso catene etiche e tracciabili. Dall’altro l’esperienzialità, con hotel, ristoranti, spazi immersivi. Il messaggio è chiaro: non basta più vendere un abito, serve costruire un mondo. È il tentativo di tornare alla verità originaria, quella che trasforma un prodotto in presenza, un oggetto in essenza.

Saint Laurent ha scelto un’altra strada: concentrare la propria identità. In un’epoca di dispersione, YSL ha fatto della pelle il proprio centro. Leather goods che generano oltre il settanta per cento dei ricavi, non solo come scelta economica, ma come dichiarazione di corpo. La pelle come identità tattile, come verità incarnata. Intorno a questa radice si sviluppano fragranze di nicchia, come Le Vestiaire des Parfums, e persino esperienze gastronomiche, come Sushi Park nel flagship di Parigi. È una scelta controcorrente: rallentare la moda non producendo di più, ma nutrendo in profondità. Non rincorrere la novità effimera, ma trasformare il marchio in esperienza sensoriale totale.

A livello sociologico, queste strategie parlano di un bisogno universale. Bauman scriveva che la modernità liquida scioglie ogni legame e impone il tempo breve. La moda, specchio di questa liquidità, rischia di consumarsi nell’istante. Ma i gesti di Proenza Schouler, Gucci e Saint Laurent sono segnali di un’inversione possibile: non accettare più la logica della corsa cieca, ma ridare valore al rallentamento.

C’è una lezione psicologica dietro tutto questo. La creatività non è infinita. Ha bisogno di pause, di cicli, di vuoti. Come il corpo, che senza sonno collassa, anche i brand hanno bisogno di un tempo di rigenerazione. Ignorare questo limite ha prodotto burnout, stagnazione, perdita di senso. Riconoscerlo significa aprire la strada a un nuovo equilibrio tra mercato e identità.

E allora la domanda è: che cos’è oggi la moda? È ancora linguaggio, come lo definiva Barthes, o è diventata puro rumore di fondo? È ancora esperienza trasformativa, o solo intrattenimento visivo per un pubblico stanco? Le mosse di questi tre brand non sono risposte definitive, ma tentativi. Frammenti di resistenza. Segnali che il sistema può ancora cambiare pelle.

n.d.r.
Forse la vera rivoluzione non sarà la prossima collezione, ma il silenzio tra una collezione e l’altra. L’attesa che restituisce sacralità. Il coraggio di dire no alla velocità. Perché la moda, quando smette di correre, non muore. Torna a essere verità. Torna a essere corpo. Torna a essere identità. Torna a essere presenza.

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra è un artista visivo e psicologo. Fotografa l’anima prima ancora dei volti. Ogni scatto è un atto di verità, un frammento di silenzio che vibra, un incontro autentico tra la sua sensibilità e l’essenza umana di ciò che ritrae. Le sue immagini non decorano, scavano. Non mostrano, rivelano. La moda è il suo lessico estetico: un universo che abita da anni, dove eleganza e identità si fondono in visioni che superano la superficie. Ma la macchina fotografica, per lui, è solo il mezzo. Il fine è più alto: far sentire, toccare, ricordare. Laurea in Psicologia, con un focus sulla psicologia sociale e sul potenziale evolutivo dell’essere umano. Questo non è un dettaglio biografico, è un orizzonte che trasforma il suo modo di guardare, ascoltare, raccontare. Le sue opere non parlano solo agli occhi, ma alle parti invisibili che ci compongono. E poi ci sono le parole. Le usa come una seconda lente, forse la più affilata. Ogni parola per lui pesa, pulsa, incide. Perché sa che quando immagine e linguaggio si incontrano, nasce qualcosa che può toccare profondamente, cambiare prospettiva, lasciare un segno. Il suo lavoro è questo: un intreccio di visione e coscienza, di luce e psiche. Un viaggio dentro l’umanità, per chi ha il coraggio di guardare davvero.

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