Editoriale di: Gabriele Vinciguerra

C’è un profumo diverso nell’aria della moda, e non è un nuovo eau de parfum da centinaia di euro. È odore di terra, di stoffa vera, di corpi che tornano a respirare dopo anni di plastica lucida e pensieri preconfezionati.
Il 2025, finalmente, è l’anno in cui la moda sembra voler rimettere un po’ d’anima nelle cuciture.

Non sarà un miracolo, ma è già qualcosa.

La gente si è stancata di vestirsi come l’algoritmo vuole. Di cambiare stile ogni venti secondi perché “lo dice TikTok”.
Il paradosso è che, nel caos estetico globale, il nuovo lusso è la coerenza.
Vestirsi come si pensa. Non per essere visti, ma per riconoscersi.

Ecco allora che il scarf coat diventa più di un capo.
È una dichiarazione: un gesto calmo e preciso contro l’urgenza di piacere a tutti.
Quel cappotto con sciarpa integrata che ti avvolge come un abbraccio di silenzio, racconta che sì, puoi proteggerti dal freddo, ma soprattutto dalla stupidità dilagante.
È un modo elegante per dire “lasciatemi in pace, sto cercando di tornare me stesso”.

Poi c’è il monocromo estremo, dove il beige smette di essere banale e il marrone diventa quasi una forma di meditazione.
Le nuove palette parlano di radici, di sostanza, di quiete.
E in mezzo, come una scintilla, il rosso.
Non un rosso “romantico”, ma un rosso che grida presenza.
È il colore di chi non ha più voglia di nascondersi dietro i filtri, di chi si espone con il rischio di stonare.
Perché sì, oggi la vera eleganza è dissonante.

Il minimalismo non è morto, si è solo fatto più coraggioso.
Lo chiamano eclectic minimalism, e vuol dire una cosa semplice: l’imperfezione è tornata di moda.
Tagli asimmetrici, linee spezzate, tessuti che non obbediscono, pieghe lasciate lì apposta per ricordarci che la vita non si stira.
È l’anti-perfezione come forma di verità.
E chi non la capisce probabilmente vive ancora convinto che l’autenticità sia una funzione da attivare nelle impostazioni.

Nel frattempo, riemerge un’anima più antica, più umana: il boho revival.
Ricami, trame, pizzi, frange.
Tessuti che sanno di mani, non di macchina.
È l’estetica del “fatto bene, fatto lento”, che oggi suona quasi rivoluzionaria.
Mentre il mondo corre a velocità di scorrimento, la moda – almeno una parte di lei – si ferma.
Ritorna alla lentezza, all’artigianato, alla vulnerabilità che solo una cucitura imperfetta può evocare.

E poi, sorpresa: torna l’indie sleaze.
Sì, quella estetica sporca, vissuta, da club underground e fotografie mosse.
Un’estetica che non chiede il permesso, non finge di essere “cool”.
È la risposta al pulito finto del lusso algoritmico, ai loghi grandi come manifesti e ai volti clonati dalla chirurgia del feed.
È il ritorno del disordine come atto di libertà.
Perché quando tutti cercano di sembrare impeccabili, l’imperfezione diventa ribellione.

Il bello è che tutto questo – scarf coat, monocromo, indie, boho – converge verso un unico messaggio: la moda è tornata ad avere qualcosa da dire.
E no, non parla solo di estetica. Parla di psicologia.
Di percezione, di identità, di coraggio individuale.
Chi oggi osa vestirsi in modo autentico, lo fa come chi osa pensare in modo libero.

La massa continuerà a inseguire la prossima collaborazione tra marchi.
Continuerà a postare look tutti uguali con la stessa posa da default umano.
Ma chi ha capito il gioco si muove in modo diverso: rallenta, osserva, sceglie.
Non compra capi per coprirsi, ma per raccontarsi.
E in quell’atto minuscolo e silenzioso — decidere come vestire il proprio corpo, senza chiedere il permesso — c’è ancora tutta la dignità dell’essere umano.

Certo, dire che la moda salverà il mondo sarebbe ingenuo.
Ma può ricordargli chi siamo.
Può diventare lo specchio che non giudica ma svela.
Può restituire un senso di presenza in un’epoca che vive solo di assenze.

E allora sì, si può ridere un po’.
Perché vedere le folle vestite da manichini motivazionali è tragicomico.
Ma nel frattempo, c’è chi si muove nel silenzio, chi non si fotografa ma si vive.
Chi usa la moda come linguaggio e non come marketing personale.
Loro sono i nuovi ribelli, anche se non lo dicono.

Il 2025 non sarà ricordato per una “nuova tendenza”.
Sarà ricordato come l’anno in cui la moda ha finalmente detto basta:
basta alla finzione, basta alla vetrina, basta al vuoto travestito da stile.

Da qui in avanti, vestirsi non sarà un atto estetico, ma un atto politico.
O ti riconosci, o ti cancelli.

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra è un artista visivo e psicologo. Fotografa l’anima prima ancora dei volti. Ogni scatto è un atto di verità, un frammento di silenzio che vibra, un incontro autentico tra la sua sensibilità e l’essenza umana di ciò che ritrae. Le sue immagini non decorano, scavano. Non mostrano, rivelano. La moda è il suo lessico estetico: un universo che abita da anni, dove eleganza e identità si fondono in visioni che superano la superficie. Ma la macchina fotografica, per lui, è solo il mezzo. Il fine è più alto: far sentire, toccare, ricordare. Laurea in Psicologia, con un focus sulla psicologia sociale e sul potenziale evolutivo dell’essere umano. Questo non è un dettaglio biografico, è un orizzonte che trasforma il suo modo di guardare, ascoltare, raccontare. Le sue opere non parlano solo agli occhi, ma alle parti invisibili che ci compongono. E poi ci sono le parole. Le usa come una seconda lente, forse la più affilata. Ogni parola per lui pesa, pulsa, incide. Perché sa che quando immagine e linguaggio si incontrano, nasce qualcosa che può toccare profondamente, cambiare prospettiva, lasciare un segno. Il suo lavoro è questo: un intreccio di visione e coscienza, di luce e psiche. Un viaggio dentro l’umanità, per chi ha il coraggio di guardare davvero.

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