Damiano Davi

Editoriale di: Gabriele Vinciguerra

Ogni artista, prima o poi, deve morire almeno una volta. Non fisicamente, ma dentro la propria immagine.
È ciò che sta accadendo a Damiano David. Un ragazzo che il mondo ha imparato a vedere come icona, corpo magnetico, simbolo di libertà. Ma che, dietro i palchi, ha sentito qualcosa di più profondo: la fame di autenticità.

La sua scelta di staccarsi dai Måneskin non nasce da un capriccio, ma da una crisi d’identità. Quella stessa crisi che ogni essere umano attraversa quando il personaggio prende il sopravvento sulla persona. “Ho scoperto paure e blocchi” ha detto, parlando del suo primo album solista Funny Little Fears. In quelle parole c’è il bisogno di ricentrarsi, di tornare alla sorgente da cui tutto era nato, quando la musica era ancora un modo per capire sé stesso e non per rappresentarsi al mondo.

Le band, come le relazioni, funzionano finché esiste equilibrio tra libertà e appartenenza.
Quando uno dei membri cresce più in fretta o in direzioni diverse, il gruppo si incrina. Non per colpa, ma per fisiologia. Damiano oggi cerca la vulnerabilità, non più l’adrenalina. I suoi compagni, ognuno a modo proprio, stanno facendo lo stesso viaggio: Victoria esplora la sensualità dell’elettronica, Thomas cerca radici nel suono, Ethan si ritira nell’essenziale.
Sono fasi diverse dello stesso processo: maturare. Scoprire che la ribellione non è urlare più forte, ma ascoltare più in profondità.

Da fuori, qualcuno parlerà di “brand in crisi”.
È la lettura più comoda: il valore dei Måneskin cala, il mercato spinge per una reunion, il business chiama. Ma dentro, ciò che accade è più complesso.
Quando la fama ti travolge, il primo a sparire sei tu. E ricominciare da sé stessi è il gesto più radicale che un artista possa compiere. Damiano non fugge dalla band. Si spoglia di ciò che lo protegge per capire se sotto resta qualcosa di vero.

Il ritorno, se ci sarà, non sarà un ritorno a loro, ma a sé.
Non tornerà per “salvare un nome”, ma per ricucire una parte di sé che la corsa aveva strappato. E allora sì, sarà autentico.
Ma non potrà essere lo stesso. Perché chi affronta il proprio dolore non torna mai uguale.

La domanda è: gli altri sapranno riconoscere questa nuova identità?
Non è solo una questione di suono, ma di linguaggio emotivo. Damiano oggi canta con ferite aperte, in spazi più intimi, meno scenici. Se i Måneskin sapranno accoglierlo, dovranno cambiare pelle anche loro.
E questa, più che una prova musicale, è una prova psicologica.
Accogliere il cambiamento dell’altro significa mettere in discussione il proprio.
Significa smettere di suonare per vincere e ricominciare a suonare per dire la verità.

Forse è questo il punto più umano della loro storia.
Non il trionfo, non la crisi, ma la maturità.
Quando la giovinezza lascia il posto alla consapevolezza e la rabbia diventa introspezione. Quando la musica non serve più a salire sul palco, ma a restare vivi.

Se torneranno, sarà un’altra band.
Non più quattro ragazzi che sfidano il mondo, ma quattro persone che hanno imparato a sfidare sé stesse.
E sarà allora, forse per la prima volta, che ascolteremo davvero chi sono.

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra è un artista visivo e psicologo. Fotografa l’anima prima ancora dei volti. Ogni scatto è un atto di verità, un frammento di silenzio che vibra, un incontro autentico tra la sua sensibilità e l’essenza umana di ciò che ritrae. Le sue immagini non decorano, scavano. Non mostrano, rivelano. La moda è il suo lessico estetico: un universo che abita da anni, dove eleganza e identità si fondono in visioni che superano la superficie. Ma la macchina fotografica, per lui, è solo il mezzo. Il fine è più alto: far sentire, toccare, ricordare. Laurea in Psicologia, con un focus sulla psicologia sociale e sul potenziale evolutivo dell’essere umano. Questo non è un dettaglio biografico, è un orizzonte che trasforma il suo modo di guardare, ascoltare, raccontare. Le sue opere non parlano solo agli occhi, ma alle parti invisibili che ci compongono. E poi ci sono le parole. Le usa come una seconda lente, forse la più affilata. Ogni parola per lui pesa, pulsa, incide. Perché sa che quando immagine e linguaggio si incontrano, nasce qualcosa che può toccare profondamente, cambiare prospettiva, lasciare un segno. Il suo lavoro è questo: un intreccio di visione e coscienza, di luce e psiche. Un viaggio dentro l’umanità, per chi ha il coraggio di guardare davvero.

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