Meritocrazia

Articolo di: Gabriele Vinciguerra

Se vuoi, puoi.
Se studi, riuscirai.
Se ti impegni, ce la farai.

Sono le frasi che abbiamo ripetuto come preghiere laiche a una generazione intera. Promesse di giustizia travestite da motivazione. Ma nel 2024, il mito del merito mostra la sua natura più crudele: non è vero che basta il talento. Non è mai bastato.

E a dirlo non sono sensazioni, ma i dati. Freddi, implacabili, ufficiali.

In Italia il punto di partenza è ancora una condanna

Secondo l’OCSE (2024), l’Italia è uno dei paesi europei con la più bassa mobilità sociale. In particolare:

“Servono cinque generazioni affinché una famiglia povera possa raggiungere un reddito medio.”
(OCSE, Studi economici dell’Italia, 2024)

Tradotto: se nasci in un contesto svantaggiato, anche con tutta la buona volontà del mondo, probabilmente rimarrai lì.
Altro che ascensore sociale: è rotto da decenni, e chi oggi ha vent’anni lo sa benissimo.

Lo conferma anche ISTAT (2024): solo l’8% dei figli di genitori senza diploma consegue una laurea. Il divario formativo resta strutturale. E se l’istruzione non è più lo strumento per cambiare la propria vita, allora di quale merito stiamo parlando?

I giovani lavorano, ma restano poveri

Nel 2024, secondo ISTAT, il 18,9% della popolazione italiana è a rischio di povertà. La percentuale sale tra i giovani under 35, dove la precarietà è la norma.

Il Rapporto 2024 della Fondazione Di Vittorio ha rilevato che:

“Su oltre 7 milioni di contratti attivati nel 2024, più della metà sono a tempo determinato o parasubordinato.”
Il 30,5% riguarda lavoratori tra i 15 e i 34 anni.

Siamo di fronte a una generazione che, anche lavorando, non riesce ad uscire dalla povertà.
Una generazione spremuta in tirocini non retribuiti, contratti a chiamata, stage “formativi” che formano solo la rassegnazione.
Le aziende lo sanno. E sfruttano il bisogno come leva per abbassare i diritti.

Disoccupati o sottopagati: il futuro negato

Nel febbraio 2025, il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) si attesta al 16,9%.
Ma il dato più preoccupante non è chi è disoccupato: è chi lavora in condizioni indegne.

Secondo Almalaurea 2024:

  • A un anno dalla laurea magistrale, solo il 42,7% dei laureati ha un lavoro stabile.

  • Il reddito netto mensile medio è di 1.206 euro.

  • E il 20% lavora con contratti atipici, spesso senza tutele.

Siamo lontani anni luce dalla narrativa del “chi si impegna, ce la fa”.
Il talento c’è, la formazione anche. Manca solo una cosa: un sistema disposto a riconoscerli.

L’altra emergenza: la salute mentale giovanile

Non sorprende che questo scenario generi effetti devastanti sulla psiche.
Nel 2024, secondo il report di State of Mind, oltre 16 milioni di italiani hanno sofferto di disturbi psicologici gravi o medio-gravi.
I giovani sono i più colpiti:

“Il 35% degli under 35 segnala sintomi di ansia, attacchi di panico o depressione legati all’incertezza lavorativa.”
(State of Mind, Salute mentale in Italia, 2024)

Eppure la narrazione pubblica non cambia. Anzi: la colpa viene interiorizzata.
Non trovi lavoro? Forse non sei competitivo abbastanza.
Non riesci a pagarti un master? Dovevi pensarci prima.
Hai una laurea ma sei sottopagato? Beh, almeno hai un lavoro.

Questa non è motivazione. È colpevolizzazione di massa.

La politica sa. E non fa.

Nel frattempo, la politica ripete la sua litania: “ripartenza”, “giovani”, “futuro”, “merito”.
Ma a fronte dei dati, il silenzio è complice. E strategico.

Nel Rapporto CENSIS 2023, l’87% dei giovani italiani si dichiara:

  • deluso dalle istituzioni,

  • sfiduciato nei confronti del lavoro pubblico,

  • e non rappresentato politicamente.

I fondi per il diritto allo studio restano insufficienti. Le politiche attive del lavoro deboli. Il supporto psicologico scolastico e universitario? Praticamente inesistente.
La precarietà giovanile non è una conseguenza. È una scelta.

Il merito non è morto. È stato sequestrato.

Non è vero che i giovani non hanno voglia di fare. È vero che non trovano un terreno in cui far germogliare ciò che sono.
Il merito, quando esiste, non dovrebbe chiedere permesso.
Dovrebbe essere riconosciuto, sostenuto, premiato. Ma oggi deve elemosinare opportunità.

E allora basta raccontare la favola.
La realtà è che il talento, in Italia, non basta se non hai le spalle coperte.
E continuare a dire il contrario, nel 2024, è una forma sottile e feroce di disonestà sociale.

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra è un artista visivo e psicologo. Fotografa l’anima prima ancora dei volti. Ogni scatto è un atto di verità, un frammento di silenzio che vibra, un incontro autentico tra la sua sensibilità e l’essenza umana di ciò che ritrae. Le sue immagini non decorano, scavano. Non mostrano, rivelano. La moda è il suo lessico estetico: un universo che abita da anni, dove eleganza e identità si fondono in visioni che superano la superficie. Ma la macchina fotografica, per lui, è solo il mezzo. Il fine è più alto: far sentire, toccare, ricordare. Laurea in Psicologia, con un focus sulla psicologia sociale e sul potenziale evolutivo dell’essere umano. Questo non è un dettaglio biografico, è un orizzonte che trasforma il suo modo di guardare, ascoltare, raccontare. Le sue opere non parlano solo agli occhi, ma alle parti invisibili che ci compongono. E poi ci sono le parole. Le usa come una seconda lente, forse la più affilata. Ogni parola per lui pesa, pulsa, incide. Perché sa che quando immagine e linguaggio si incontrano, nasce qualcosa che può toccare profondamente, cambiare prospettiva, lasciare un segno. Il suo lavoro è questo: un intreccio di visione e coscienza, di luce e psiche. Un viaggio dentro l’umanità, per chi ha il coraggio di guardare davvero.

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