Ardicolo di: Gabriele Vinciguerra
C’è un momento, quando scorri LinkedIn, in cui ti chiedi se stai leggendo storie di vita o copioni scritti per impressionare. Tutti sembrano felici, determinati, in costante crescita. Eppure, dietro quella patina di entusiasmo professionale, si avverte spesso un rumore di fondo: l’eco di un bisogno inappagato di essere visti.
Non è la piattaforma a essere tossica. È la nostra fame di conferme a renderla così. LinkedIn diventa il luogo dove si cerca approvazione vestita da networking, dove la vulnerabilità si maschera da “lesson learned” e la fatica viene tradotta in “resilienza”. Tutto calibrato, tutto condivisibile, tutto perfettamente “professionale”.
Ma tra chi si mostra e chi si racconta, la differenza resta enorme. L’uno esibisce, l’altro si espone. L’uno cerca pubblico, l’altro cerca contatto. Ed è in questa sottile linea che si gioca il senso autentico della connessione.
Ci sono persone che usano LinkedIn come una vetrina, altre come una finestra. Le prime puntano a costruire un’immagine levigata, senza crepe, impeccabile. Le seconde lasciano filtrare anche la parte umana, i dubbi, i tentativi, le cadute. E in quella trasparenza c’è un valore che nessun algoritmo potrà mai replicare: la credibilità.
LinkedIn, in sé, non ha colpe. È un ecosistema dove convivono talento e vanità, autenticità e performance. È lo specchio dei tempi: una società che premia l’apparenza più della profondità, la visibilità più della sostanza. Ma è anche un luogo dove si può ancora costruire senso, se si ha il coraggio di comunicare da esseri umani e non da personaggi.
Il paradosso è che la piattaforma è nata per connettere, eppure spesso separa. Ci si osserva più di quanto ci si ascolti, ci si misura più di quanto ci si incontri. Ogni post sembra una micro-conferenza motivazionale, ma dietro le parole “ispiranti” spesso si nasconde il bisogno disperato di approvazione. È il teatro del sé performativo, dove l’identità si costruisce attraverso lo sguardo degli altri.
Eppure, c’è anche chi resiste. Chi scrive non per ottenere, ma per condividere. Chi parla di lavoro come di un cammino, non di una scalata. Chi racconta il fallimento come parte naturale di una crescita. In loro c’è una forma rara di autenticità, quella che non cerca consensi ma senso.
Il confine tra autenticità e finzione è psicologicamente sottile. L’essere umano tende a mostrarsi nella sua versione più accettabile, soprattutto in contesti pubblici. È una strategia di autoconservazione sociale. Ma quando questa costruzione diventa la norma, l’identità si sfilaccia. Ci si abitua a credere più nella propria immagine che nella propria esperienza.
LinkedIn diventa così una lente attraverso cui osservare un fenomeno più ampio: la trasformazione della comunicazione professionale in rappresentazione emotiva. Tutto deve essere coinvolgente, tutto deve generare reazioni. Si confonde il valore con la visibilità, la competenza con la popolarità. E in questa sovraesposizione, il rischio è perdere la propria voce autentica.
La psicologia ci ricorda che il bisogno di riconoscimento è uno dei motori fondamentali della motivazione umana. Ma quando il riconoscimento esterno diventa l’unica fonte di valore personale, la fragilità aumenta. Ogni mancato “mi piace” viene percepito come un rifiuto, ogni silenzio come un fallimento. È così che le piattaforme diventano non più strumenti di crescita, ma luoghi di dipendenza emotiva.
Riconoscere questa dinamica è il primo passo per disinnescarla. Comunicare con autenticità significa accettare la propria imperfezione. Significa non trasformare ogni esperienza in marketing, non usare ogni emozione come leva narrativa. È un atto di libertà psicologica, una scelta di verità.
Ciò che rende LinkedIn ancora utile, nonostante tutto, è la possibilità di incontrare persone che scelgono la sostanza. Quelle che scrivono meno ma ascoltano di più. Quelle che preferiscono una conversazione autentica a un applauso digitale. Quelle che ricordano che dietro ogni titolo di lavoro, ogni foto in giacca e cravatta, c’è una storia, una fragilità, un essere umano che cerca di dare un senso al proprio tempo.
Alla fine, ogni piattaforma è solo un mezzo. È l’intenzione che ne determina il valore. Possiamo farne una passerella o una piazza, una competizione o un dialogo. Possiamo usarla per apparire o per appartenere.
La domanda resta sempre la stessa, semplice e potente:
stai comunicando per essere visto o per essere connesso?












