Editoriale di: Gabriele Vinciguerra
Per anni abbiamo assistito a un fenomeno che oggi, alla luce degli eventi, assume contorni più chiari e più inquietanti di quanto volessimo ammettere. Una generazione non ha inseguito un sogno, ha inseguito un riflesso. Ha creduto che la verità, la felicità, la direzione esistenziale potessero essere contenute dentro i video di persone dalla competenza fragile, dalla preparazione minima, dalla profondità inesistente. Figure d’immagine che hanno scambiato la comunicazione per autorevolezza e l’esposizione per conoscenza.
È stata la psicologia della massa digitale a renderle così grandi. La ricerca di modelli immediati, il bisogno di appartenenza, l’illusione che qualcuno sapesse cosa fare con la propria vita in un mondo diventato ingovernabile. Gli influencer hanno occupato uno spazio che non spettava loro. Sono diventati depositari simbolici di una verità che non potevano reggere, perché quella verità non la possedevano.
Il problema non è mai stato il loro successo. È stato ciò che abbiamo permesso che rappresentassero.
Mentre amplificavano contenuti inconsistenti, mentre costruivano felicità di plastica e narrazioni senza radici, un’intera platea fragile cercava risposte reali. Ed è qui che la psicologia sociale è impietosa. La vulnerabilità, quando non trova orientamento solido, si aggrappa a ciò che brilla. Non a ciò che è vero. Nel rumore del presente, milioni di persone hanno scambiato carisma per competenza, storytelling per esperienza, intrattenimento per saggezza.
E dietro quel meccanismo c’erano aziende perfettamente consapevoli del potere persuasivo delle figure che stavano utilizzando. Hanno strumentalizzato volti giovani e spesso impreparati, sfruttando la loro immagine per costruire profitto. Sapendo esattamente quanto tossica sarebbe stata quella dinamica per i più impressionabili. La responsabilità sociale è evaporata. La trasparenza è stata sostituita dalla monetizzazione. La cura del pubblico è stata sacrificata per la crescita trimestrale.
Non è un’accusa astratta. È l’esito di un modello che ha trasformato il marketing in manipolazione emotiva e la comunicazione in un teatro della finzione. È qui che entra in gioco anche il giornalismo, troppo spesso complice. Non per cattiveria, ma per superficialità. Una parte dei media ha rinunciato all’etica proprietaria del Testo Unico dei Doveri del Giornalista. Ha moltiplicato figure inconsistenti, ha normalizzato il vuoto, ha alimentato l’illusione che chiunque potesse diventare guida culturale solo perché sapeva attirare lo sguardo.
Abbiamo così prodotto un decadimento sociale e culturale che oggi paghiamo in pieno. Una frattura generazionale fatta di linguaggi impoveriti, attenzione ridotta, ambizioni costruite su sabbia. Un modello educativo imploso, dove l’immagine ha sostituito il merito e il talento è stato soppiantato dall’esposizione.
Il risultato è un paradosso crudele. Da una parte ci sono individui privi di reale cultura e competenze minime, convinti che basti accendere una fotocamera per diventare esperti di crescita personale o professionisti del successo. Dall’altra ci sono persone vulnerabili che cercano un appiglio, un orizzonte, un senso. Due fragilità che si incontrano, una che promette e una che crede. In mezzo, il mercato.
E in questa dinamica distorta, chi ha sofferto sono sempre gli stessi. I più fragili. Coloro che si aggrappano a chiunque sembri avere una direzione mentre vivono in un presente che li confonde, li sovrasta, li rende impotenti. Non è stupidità, è psicologia. È la ferita dei nostri tempi. L’essere umano, quando è smarrito, si fida di chi sembra sapere. Anche se chi sembra sapere è solo un personaggio che recita competenze che non ha.
La caduta di questo modello non è solo mediatica. È culturale. È morale. È la fine di un’illusione collettiva. La verità è che molti influencer non avevano alcun potere reale. Era un potere immaginato, riflesso, concesso da un pubblico affamato di guida. Quando l’attenzione si è spostata, la loro forza si è dissolta. Non è un crollo individuale. È il crollo di un sistema.
Oggi abbiamo l’obbligo di imparare. Di ricostruire un linguaggio più adulto. Di ricordare che informare non è intrattenere. Che il giornalismo non può appaltare il proprio ruolo a chi non ha gli strumenti o la responsabilità per esercitarlo. Che la cultura si difende. Che la mente delle persone non è un luogo da colonizzare per profitto.
Non si tratta di demonizzare il digitale. Si tratta di restituire peso alla verità. Profondità alla parola. Dignità alla comunicazione. E ricordare a chi crea contenuti, a chi lavora nei media, a chi racconta il mondo, che il nostro lavoro ha un impatto reale sulle persone reali. Tutti noi ne rispondiamo.













