Intervista di: Gabriele Vinciguerra

Unnatural non è moda nel senso comune del termine. È un atto di resistenza. È il rumore del gesso sulla lavagna, la voce stonata dentro un coro ordinato. È la scelta di non appartenere a nessuno se non a se stessi. Fabio Calò, Kalosh, ha trasformato la sua inquietudine in linguaggio visivo, unendo artigianato italiano, surf e cultura underground in un’onda che travolge omologazione e hype. Con lui, l’abito non è tendenza: è ferita, memoria, appartenenza. Ogni pezzo nasce per diventare coscienza, più che vestito. E in questa intervista, le sue parole si muovono come le onde che non smette di inseguire.

Quando parli di Unnatural come “risposta” e non come progetto, a quale ferita del mondo stai rispondendo davvero dentro di te?

Alla ferita del mio animo creativo. Avete presente i tagli di Lucio Fontana? Non mutilazioni, ma aperture. Ferite che superano i confini per accedere a una nuova dimensione. È lì che l’idea si concretizza nel prodotto. Il mio spirito inquieto cerca senza sosta: ricrea, distrugge, ricontestualizza. Vestendo e interrogando, sempre. Non c’è un inizio. Non c’è una fine.

La moda che crei non sembra fatta per vestire corpi ma coscienze. Cosa accade in te quando una persona indossa un tuo capo e lo trasforma in pelle quotidiana?

La prima scossa è la scelta. Qualcuno ha scelto la mia divisa, ha scelto la mia scelta. Poi l’estasi estetica: sapere che la mia proposta vive su un altro corpo mi esalta, mi spinge a entrare in un loop creativo infinito, a pensare a come migliorarla, modificarla, rivederla.

Nel tuo percorso che parte dal 1996, quali sono i momenti di rottura che hanno scucito la tua identità e ti hanno costretto a ricucirla in una forma nuova?

Il surf. Ha cambiato tutto e continua a farlo. Mi ha trasformato lo sguardo: sul corpo, sul processo tra nudo e vestito. L’onda che sogno di surfare è la metafora perfetta della mia impresa creativa e della mia vita. Con la sua aura magica mi ha insegnato la libertà: prendersi meno sul serio, seguire lo spirito selvaggio.

L’artigianato italiano di cui parli è ancora un rito sacro per te o è diventato un campo di battaglia in cui difendere la verità contro la velocità del mercato?

Credo nella potenza romantica del DNA. Artigianato, arte di arrangiarsi, cucina: pilastri dell’identità italiana. Vanno difesi e divulgati. Il mio lavoro è ricerca continua, ma anche missione educativa. Voglio che i giovani scoprano le potenzialità del settore, troppo spesso dato per morto. Esempio: oggi tutti fanno la felpa boxy. Tutti. Il risultato? Capi identici che cambiano solo per una stampa poco distintiva. Questo succede perché i ragazzi non conoscono le possibilità di borchiare, customizzare, trasformare davvero un capo.

Guardando il tuo lavoro sembra che moda, arte e vita personale si intreccino fino a confondersi. Che cosa succede dentro di te quando non distingui più dove finisce la tua identità privata e dove comincia quella che mostri nei tuoi capi?

Torniamo ai tagli che superano i confini. È un intreccio costante, forse eterno. Non so distinguere se sto lavorando o divertendomi. E quando mi fermo, mi accorgo che il novanta per cento di quello che faccio lo farei anche gratis. Questo ti regala un’aura energetica che non puoi comprare.

Quali sono le immagini, le parole o i silenzi che ti ispirano quando decidi che un pezzo è pronto per nascere?

Ottimismo e nostalgia. Ricordi, emozioni vissute soprattutto nei club. Ho memorie nitide di maglie, jeans, scarpe legate a momenti precisi. Sono il mio taccuino sempre aperto, su cui disegno e ridisegno.

Nella tua comunicazione emerge spesso la critica all’hype e all’omologazione. Quanto di questa lotta appartiene al Fabio uomo prima ancora che al designer?

L’omologazione mi annoia. E odio annoiarmi. Per questo cerco costantemente un pensiero mio, libero da canoni e mercati. La scelta del mio team lo dimostra: teste autonome che si confrontano e si scontrano per elevare ogni idea.

Se dovessi lasciare a chi ti segue un solo oggetto come eredità, quale sceglieresti e perché?

Il pantalone ricamato Unnatural. Racconta la mia essenza meglio di mille discorsi.

N.d.D.
Ci sono interviste che raccontano un lavoro e interviste che rivelano un’anima. Con Fabio Calò non si parla solo di moda: si attraversa un varco, un taglio, un’onda. È il segno che certi creativi non inseguono il mercato ma lo sfidano, ricordandoci che l’artigianato, la memoria e l’appartenenza non sono reliquie del passato ma strumenti per ricucire il presente. Leggerlo è un po’ come specchiarsi: capisci che l’abito può essere più vero di mille discorsi.

 

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra è un artista visivo e psicologo. Fotografa l’anima prima ancora dei volti. Ogni scatto è un atto di verità, un frammento di silenzio che vibra, un incontro autentico tra la sua sensibilità e l’essenza umana di ciò che ritrae. Le sue immagini non decorano, scavano. Non mostrano, rivelano. La moda è il suo lessico estetico: un universo che abita da anni, dove eleganza e identità si fondono in visioni che superano la superficie. Ma la macchina fotografica, per lui, è solo il mezzo. Il fine è più alto: far sentire, toccare, ricordare. Laurea in Psicologia, con un focus sulla psicologia sociale e sul potenziale evolutivo dell’essere umano. Questo non è un dettaglio biografico, è un orizzonte che trasforma il suo modo di guardare, ascoltare, raccontare. Le sue opere non parlano solo agli occhi, ma alle parti invisibili che ci compongono. E poi ci sono le parole. Le usa come una seconda lente, forse la più affilata. Ogni parola per lui pesa, pulsa, incide. Perché sa che quando immagine e linguaggio si incontrano, nasce qualcosa che può toccare profondamente, cambiare prospettiva, lasciare un segno. Il suo lavoro è questo: un intreccio di visione e coscienza, di luce e psiche. Un viaggio dentro l’umanità, per chi ha il coraggio di guardare davvero.

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