Articolo di: Gabriele Vinciguerra
Ci sono momenti nella moda in cui non servono colori. Serve lucidità.
L’uscita di Dario Vitale da Versace è uno di quei momenti.
Un addio annunciato per il 12 dicembre, arrivato appena quaranta giorni dopo il suo primo show da direttore creativo e soltanto due giorni dopo il completamento dell’acquisizione da parte di Prada Group.
I fatti sono chiari. Vitale entra in Versace il primo aprile del 2025. Presenta la sua prima e unica collezione alla Milano Fashion Week di settembre, un set intimo nella Pinacoteca Ambrosiana che molti critici hanno definito un ritorno al linguaggio carnale di Gianni. La vendita dell’azienda a Prada si chiude il 2 dicembre per oltre un miliardo. Il 4 dicembre arriva il comunicato. Cessazione del rapporto. Decisione di comune accordo. Nessuna spiegazione aggiuntiva.
E questo silenzio è un suono che conosciamo bene.
Perché il punto non è il gossip. Il punto è il modello.
Nessuno ha reso pubblici gli orari di Vitale in Versace, e non avrebbe senso fingere di saperli. Quello che possiamo verificare, però, è il tempo richiesto a chi occupa quella posizione. Ed è questo il dato che ribalta tutto.
Uno studio pubblicato su Reuters e AP nel contesto della riorganizzazione Dior mostra una cifra che fa tremare.
Un direttore creativo può arrivare a seguire fino a diciotto collezioni all’anno fra main, pre, resort, capsule e progetti paralleli. Significa vivere in un ciclo continuo. Un calendario dove la parola fine non esiste. Ogni show è già il ritardo del prossimo.
Le testimonianze raccolte negli anni da Business of Fashion e Vogue Business parlano di giornate che iniziano all’alba e finiscono oltre mezzanotte. Di riunioni, fitting, redazioni, call, eventi, interviste. Di weekend che non esistono più. Di notti senza tregua.
Donna Karan, nel suo celebre racconto di una giornata tipo, cita sveglia alle sette, una sequenza di appuntamenti che si chiude all’una di notte. Un ritmo che appartiene a più di una generazione di direttori, non a un singolo nome.
E la psicologia qui non è un’opinione.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità documenta un crollo della produttività oltre le cinquanta ore settimanali e rischi clinici importanti oltre le cinquantacinque.
Il burnout, classificato dall’OMS come sindrome da stress lavorativo cronico non gestito, si manifesta con tre segni precisi. Esaurimento emotivo. Distanza crescente dal lavoro. Sensazione di inefficacia.
Vogue Business ha già definito il settore come un epicentro di burnout. Non per romanticismo ma per dati.
C’è poi l’aspetto identitario.
La psicologia del lavoro creativo mostra un fenomeno ricorrente. Più un ruolo richiede visibilità, ownership e presenza simbolica, più la persona rischia di confondere il valore professionale con il valore personale.
Nella moda questo accade spesso.
Il direttore creativo diventa l’avatar del brand. La sua vita privata tende a scomparire. Il corpo stesso, la voce, la presenza agli eventi, diventano parte della narrazione. La persona si restringe. L’immagine si ingrandisce. È una dinamica che può durare anni, ma raramente resta sostenibile nel tempo.
È come chiedere a una persona di essere una fiamma costante dentro un sistema che non spegne mai le luci.
La verità è che non sappiamo se questo sia accaduto a Dario Vitale. Sarebbe scorretto suggerirlo. Non esiste una dichiarazione, non esiste una nota clinica, non esiste una riga che lo confermi.
Sappiamo però che il contesto in cui si muovono i direttori creativi è questo.
Un luogo dove l’estetica è solo la punta dell’iceberg, e sotto c’è un oceano di tempo, energie mentali e costi psicologici che raramente vengono discussi.
Per questo l’addio di Vitale non è un dettaglio di cronaca.
È l’occasione per fare una domanda a un’industria che da anni si nutre di accelerazione.
Quante ore può reggere un creativo dentro un sistema che chiede sempre di più. Quanta parte della propria identità si può sacrificare senza compromettere la salute mentale. Quanto può durare una leadership che deve tenere insieme innovazione, pressione mediatica, gestione manageriale, narrazione pubblica e un calendario di collezioni che non concede tregua.
La moda ama parlare di futuro.
E forse il vero futuro è un ritorno a una misura umana del lavoro creativo.
Perché l’unica cosa che non può essere sostituita da un nuovo logo o da un nuovo proprietario è il corpo e la mente di chi crea.
Se il sistema non protegge quelle, tutto il resto è solo una recita brillante sull’orlo dell’esaurimento.











