Stefano Bressani

Intervista di: Gabriele Vinciguerra

L’arte che veste la memoria

Ci sono artisti che lavorano la materia. E poi ci sono quelli che la ascoltano. Stefano Bressani appartiene a questa seconda voce interiore. Entra nella stoffa come si entra in una memoria che non è ancora stata detta. La attraversa. La interroga. Le concede una nuova forma. Ciò che nasce non è mai soltanto un’opera. È una ricomposizione. È un’identità che ritorna al mondo attraverso un gesto intimo, personale, irripetibile.

Le sue Sculture Vestite non sono un esercizio di stile. Sono un modo di guardare la vita. Sono una scelta di presenza. Ogni colore, ogni vibrazione, ogni volume rivela l’uomo prima dell’artista e l’artista prima della forma. In questo dialogo, le sue opere diventano luoghi. E dentro quei luoghi si percepiscono i passaggi che costruiscono una coscienza. Una storia. Un’appartenenza.

Lo incontro qui. Nella parte più vera di ciò che crea. E lasciamo che sia lui, attraverso le sue parole, a raccontare il nodo invisibile tra la sua anima e la sua materia.

Quando parli delle tue Sculture Vestite sembri sfiorare l’idea che ogni stoffa custodisca una memoria. Che rapporto hai con ciò che una materia ricorda e con ciò che invece preferisce dimenticare?

Il rapporto che ho con la materia è fatto di rispetto e ascolto. Ogni stoffa porta un’origine, un’appartenenza, una discendenza che attraversa il tempo prima ancora di diventare idea e poi forma. Per me la creazione ha senso solo se riesce a trasformare quella memoria in un gesto capace di parlare alla mia contemporaneità e allo stesso tempo proiettarsi nel futuro. Per questo vivo la trasposizione dall’idea alla materia come un atto intimo. L’arte diventa un tramite che passa attraverso chi la osserva, una proprietà che continua a muoversi. Preferisco parlare di sostenibilità. Il riciclo chiude un cerchio. La sostenibilità ne apre uno nuovo.

Nel tuo lavoro c’è sempre una ricomposizione. Quanto nasce da un gesto artistico e quanto da un tuo modo interiore di tenere insieme ciò che nella vita tende a scucirsi?

La ricomposizione è parte della mia natura. Vivo con entusiasmo e con quella luce che cerco di trattenere per restituirla agli altri. Non posso dividere l’uomo dall’artista. La materia che tocco prende vita da ciò che sono. Le stoffe assorbono ciò che preferisco non trattenere, anche l’oscurità che vedo crescere intorno. Mando avanti la materia perché raccolga ciò che potrebbe appesantirmi e lo trasformo in colore, in energia, in un gesto che ricompone.

Ogni volto che costruisci ha una presenza precisa. Che cosa accade dentro di te quando riconosci qualcosa di tuo in un volto che non ti appartiene?

In ogni ritratto cerco la voce dello sguardo. Non la somiglianza, ma l’identità. Quando parto dalla foto cerco un’emozione. Quando arrivo all’opera finita mi siedo davanti a lei e devo percepire quella stessa voce. Se non parla, non ho finito. Ogni opera è una sfida che mi insegna qualcosa. Sono maestro e apprendista di me stesso. Imparo mentre creo. Creo mentre imparo. Non seguo gli altri. È un difetto e una forma di verità.

Tu lavori con frammenti che tornano a essere unità. Quando hai imparato che anche un’identità può essere ricostruita senza perdere la verità?

L’ho imparato osservando. Studiando. Entrando nelle pieghe interiori di ciò che voglio ritrarre fino a superare le barriere. Prima comprendo, poi creo. Solo così l’identità resta intatta e la ricomposizione diventa un ritorno, non una maschera.

Nel tuo immaginario c’è equilibrio tra gioco e disciplina. Quanto è stato difficile riconoscere quale parte di te stava creando davvero e quale invece stava solo difendendosi?

Non sento la necessità di difendermi quando creo. Gioco e disciplina convivono in equilibrio. La mia formazione tecnica mi ha tenuto con un piede per terra. La mia parte artistica ha sempre cercato il volo. Questo doppio movimento non mi ha mai lasciato sospeso. Volare e tornare. Sognare e concretizzare. Prima devo dimostrarlo a me stesso, poi agli altri. È una responsabilità verso ciò che amo.

La stoffa che scegli parla con il colore, con la texture, con la storia che porta addosso. Quando selezioni un materiale stai scegliendo un’estetica o stai scegliendo un’emozione?

Non progetto prima. Creo mentre scelgo. Come un pittore che compone la sua tavolozza, io seleziono le stoffe. Estetica ed emozione sono insieme. Se sbaglio la prima, la seconda tace. Le opere mi parlano mentre nascono. Mi suonano dentro. Ogni volta è un dono. Ogni volta è benzina che alimenta il desiderio di fare meglio.

Le tue opere hanno una tridimensionalità che obbliga lo sguardo a muoversi. Con te vale la stessa cosa. Qual è il punto cieco del tuo percorso che ancora oggi preferisci non illuminare del tutto?

La tridimensionalità delle mie opere riflette la mia mente. Un luogo pieno di idee che si incastrano, esplodono, si ordinano e si disordinano. A volte serve una pausa. A volte serve luce. Le mie opere chiedono lentezza e profondità. Le texture diventano mondi e chi guarda sente quel movimento interiore. È la magia dell’arte. Aprire un varco. Offrire un viaggio. Sono felice che tu abbia colto questa vibrazione.

Spesso i tuoi lavori omaggiano figure iconiche. Che cosa vedi in quei simboli che ti aiuta a leggere te stesso e non solo la cultura che li ha generati?

All’inizio cercavo di mostrare che la mia tecnica poteva raggiungere una riconoscibilità oggettiva, come accadeva con l’arte pop. Ma presto ho portato quegli stessi codici dentro la vita quotidiana. Ritrovare negli altri un’identità da restituire è complesso. Ogni committente porta aspettative, e la responsabilità è enorme. Anche dopo centinaia di opere la paura rimane. Ma è una paura buona. È la conferma che sto ancora imparando.

Molti critici parlano della tua tecnica come unica. A te cosa interessa davvero essere. Un artista riconoscibile. Un uomo che ha trovato il suo linguaggio. O qualcuno che sta ancora cercando la propria forma?

Mi interessa essere fedele alla mia cifra stilistica. Sin da subito alcuni critici l’hanno riconosciuta. Per anni ho difeso le firme come fossero confini sacri. Ora so che la mia identità non sta lì. Oggi so che chi copia non ha una storia. Io sì. La mia unicità mi ha permesso di attraversare mondi diversi senza perdere me stesso. Ogni giorno è una scoperta. Non posso stancarmi. Per stancarmi dovrei cambiare il mio modo di sentire. E non succederà.

Ti muovi tra arte, memoria, riciclo, pop, territorio. Se togliessimo tutto, cosa resterebbe del tuo nucleo creativo. Non la tecnica, non la visibilità. Solo il motivo per cui hai iniziato?

Resterebbe la sfida con me stesso. Il mio lavoro è stato il mio posto sicuro, il rifugio che mi ha salvato quando la vita non era gentile. Chiudo con una frase che è più una dichiarazione che una sintesi. Io unisco i sogni alla praticità per rendere possibile il mio improbabile. Ogni giorno ci provo e ogni tanto ci riesco.

Devo tutto a mia madre. Tornò con una pallina di Natale fatta a mano. Le dissi che era semplice. Lei mi disse di provarci. E da quella sfida è iniziato tutto. Non cercai come si faceva. Mi affidai alla mia sensibilità. Così è nata una tecnica che non esisteva. Così ancora oggi cerco ciò che deve ancora parlare. L’arte non è per tutti. Tutti possono guardarla. Pochi possono entrarci. La password è la sensibilità. E non si regala.

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra è un artista visivo e psicologo. Fotografa l’anima prima ancora dei volti. Ogni scatto è un atto di verità, un frammento di silenzio che vibra, un incontro autentico tra la sua sensibilità e l’essenza umana di ciò che ritrae. Le sue immagini non decorano, scavano. Non mostrano, rivelano. La moda è il suo lessico estetico: un universo che abita da anni, dove eleganza e identità si fondono in visioni che superano la superficie. Ma la macchina fotografica, per lui, è solo il mezzo. Il fine è più alto: far sentire, toccare, ricordare. Laurea in Psicologia, con un focus sulla psicologia sociale e sul potenziale evolutivo dell’essere umano. Questo non è un dettaglio biografico, è un orizzonte che trasforma il suo modo di guardare, ascoltare, raccontare. Le sue opere non parlano solo agli occhi, ma alle parti invisibili che ci compongono. E poi ci sono le parole. Le usa come una seconda lente, forse la più affilata. Ogni parola per lui pesa, pulsa, incide. Perché sa che quando immagine e linguaggio si incontrano, nasce qualcosa che può toccare profondamente, cambiare prospettiva, lasciare un segno. Il suo lavoro è questo: un intreccio di visione e coscienza, di luce e psiche. Un viaggio dentro l’umanità, per chi ha il coraggio di guardare davvero.

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