Carhartt

Articolo di: Gabriele Vinciguerra

C’è una differenza tra un marchio che segue le tendenze e uno che le sopravvive. Carhartt appartiene alla seconda categoria.
Nato tra polvere, rotaie e officine, oggi si muove tra cemento, skatepark e metropoli. Non ha mai smesso di essere sé stesso, nemmeno quando il mondo della moda ha provato a prenderlo per mano e portarlo altrove.

La sua storia comincia nel 1889, a Detroit, con tute da lavoro pensate per chi sporcava le mani sul serio. Poi è arrivato il tempo della mutazione: l’Europa, gli anni Novanta, la nascita della linea Work In Progress. Da lì, Carhartt è passato da simbolo di fatica a icona di resistenza.
Non è un marchio che grida, ma che resiste. E questa è la sua forza.

Nel 2025, i dati parlano chiaro: Carhartt è tra i brand più citati e acquistati, soprattutto da chi cerca solidità in un sistema che si sbriciola a ogni stagione. La sua “Detroit Jacket” continua a essere una delle giacche più ricercate al mondo. Non per nostalgia, ma perché racconta una verità che la moda ha quasi dimenticato: la bellezza può essere funzionale.

La gente compra Carhartt per la stessa ragione per cui ci si fida di un vecchio amico. Perché sai che non tradirà la sua parola.
Nel suo DNA non c’è il marketing, ma la coerenza. Ogni cucitura, ogni tessuto pesante, ogni rivetto sembra dire: “non siamo qui per piacervi, siamo qui per durare.”

Eppure, nonostante la solidità, Carhartt WIP è riuscita a evolversi.
La versione europea del brand ha portato la stessa etica del lavoro in un linguaggio più giovane, urbano, contaminato. Non ha perso l’anima: l’ha spostata di contesto. Ha unito il mondo operaio con quello dello skate, del rap, dell’arte indipendente.
Un equilibrio raro: rimanere autentici mentre si cambia pelle.

Nella moda contemporanea, dove molti brand si inventano un passato per sembrare profondi, Carhartt gioca al contrario.
Ha una storia vera, e non ha bisogno di urlarla.
È diventato fashion senza mai smettere di essere workwear.
Ha trovato consenso senza perdere sostanza.

Oggi la sua forza è proprio questa: la sobrietà dell’autenticità.
In un’epoca in cui tutto è storytelling, Carhartt è ancora fatto di storie reali. Quelle dei muratori, dei fotografi, degli artisti di periferia, dei ragazzi che non hanno bisogno di loghi giganti per sentirsi qualcuno.

Il rischio, semmai, è un altro: diventare troppo “moda”, troppo patinato, troppo lontano dal suo stesso linguaggio.
Ma per ora il brand sembra saperlo.
Ogni nuova collezione WIP mantiene quella solidità che rassicura chi non vuole un capo da sfoggiare ma da vivere.
E chi compra Carhartt oggi non lo fa per tendenza, ma per appartenenza.

La moda cambia in fretta, ma l’identità no.
E se c’è un messaggio che Carhartt continua a mandare, è che il vero lusso non è apparire, è durare.
Resistere all’obsolescenza programmata, anche quando tutti intorno corrono verso il prossimo hype.

In fondo, in un mondo che consuma immagini e abiti con la stessa velocità con cui scrolla uno schermo, Carhartt è uno degli ultimi marchi che non hanno paura del tempo.
E forse è proprio questo che lo rende, paradossalmente, più moderno di tutti.

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Gabriele Vinciguerra
Gabriele Vinciguerra è un artista visivo e psicologo. Fotografa l’anima prima ancora dei volti. Ogni scatto è un atto di verità, un frammento di silenzio che vibra, un incontro autentico tra la sua sensibilità e l’essenza umana di ciò che ritrae. Le sue immagini non decorano, scavano. Non mostrano, rivelano. La moda è il suo lessico estetico: un universo che abita da anni, dove eleganza e identità si fondono in visioni che superano la superficie. Ma la macchina fotografica, per lui, è solo il mezzo. Il fine è più alto: far sentire, toccare, ricordare. Laurea in Psicologia, con un focus sulla psicologia sociale e sul potenziale evolutivo dell’essere umano. Questo non è un dettaglio biografico, è un orizzonte che trasforma il suo modo di guardare, ascoltare, raccontare. Le sue opere non parlano solo agli occhi, ma alle parti invisibili che ci compongono. E poi ci sono le parole. Le usa come una seconda lente, forse la più affilata. Ogni parola per lui pesa, pulsa, incide. Perché sa che quando immagine e linguaggio si incontrano, nasce qualcosa che può toccare profondamente, cambiare prospettiva, lasciare un segno. Il suo lavoro è questo: un intreccio di visione e coscienza, di luce e psiche. Un viaggio dentro l’umanità, per chi ha il coraggio di guardare davvero.

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