Editoriale di: Gabriele Vinciguerra
Quando tutto è spettacolo, il silenzio diventa eversivo
Il sistema moda è in cancrena. E non perché manchi il talento, ma perché è morto il pensiero. Ciò che resta è un’apparenza tossica, un’eco di sé stessa.
Non è più un linguaggio, ma una recita in loop dove tutti fingono di capire qualcosa che ormai non esiste.
Un tempo la moda era ricerca, visione, imperfezione. Oggi è produzione industriale del nulla. Una catena di montaggio emotiva che fabbrica desideri usa e getta, travestiti da libertà.
Il paradosso dell’iper-visibilità
Viviamo in un regime di sovraesposizione. Ogni abito, ogni scarpa, ogni gioiello è pensato per la fotocamera, non per il corpo.
L’abito non si indossa più, si pubblica.
E chi non appare non esiste. Un dogma costruito dagli algoritmi, alimentato da un’utenza ipnotizzata che scambia l’attenzione per valore.
Oggi la moda non comunica identità, ma consenso. È una vetrina del conformismo travestito da libertà d’espressione.
Il mito della novità: riciclare l’obsolescenza
Ogni collezione è la copia esatta di un’altra, con solo il numero di stagione a cambiare.
Il sistema chiede “nuovo” ogni tre mesi, ma ha ucciso la novità da anni.
Il risultato è un déjà-vu continuo, una catena produttiva che crea per distruggere.
Nel 2024, The Guardian ha denunciato il problema delle scorte bruciate o distrutte dai grandi marchi per evitare svalutazioni.
Tonellate di abiti nuovi, mai indossati, eliminati in silenzio.
È la prova che la moda non vende più sogni: smaltisce fallimenti.
La sostenibilità come paravento morale
Parola d’ordine: “green”. Ma se scavi, trovi la muffa.
I brand sbandierano la sostenibilità come un accessorio da red carpet, mentre i loro modelli produttivi restano gli stessi.
Secondo Greenpeace International, il fast fashion “non sarà mai verde”, perché la velocità produttiva è incompatibile con il pianeta.
E The Guardian conferma che quasi il 25% dei grandi marchi non ha nemmeno un piano pubblico di decarbonizzazione.
La sostenibilità è diventata l’ennesima bugia estetica. Si vende la coscienza come si vende un profumo.
L’intelligenza artificiale e la morte del gesto
Oggi l’AI disegna, modella, suggerisce, sceglie. Non interpreta: sostituisce.
La generazione automatica di immagini ha colonizzato il processo creativo. Ciò che era intuizione è diventato calcolo predittivo.
Ma un algoritmo non conosce la paura di sbagliare, non sente la stoffa tra le dita, non trasuda presenza.
L’AI è una scorciatoia che sterilizza l’imprevisto, cioè l’unico spazio dove nasce la vera bellezza.
Non è il rischio che l’AI sostituisca l’uomo, è peggio: che ci convinca che non serve più.
Utenza anestetizzata
Siamo consumatori che non consumano: sono consumati.
Bombardati da immagini, consigli, trend, stimoli infiniti.
La mente è in overload cognitivo. La capacità critica si dissolve, la scelta diventa automatica.
Ogni scroll è un atto di fede cieca nell’algoritmo. Ogni like è un voto al sistema che decide cosa ci deve piacere.
L’utente non è più soggetto, ma prodotto. E il dramma è che non se ne accorge.
Influenze senza sostanza: la dittatura dell’apparire
Nel vuoto lasciato dai creatori, avanzano gli influencer-designer.
Gente che ha imparato a stare davanti a una fotocamera, non dietro un banco da lavoro.
Persone che confondono la notorietà con la competenza, il seguito con il talento.
Oggi basta un reality, un podcast trash o una polemica virale per essere considerati visionari.
Si spacciano per creativi, ma non sanno neppure cos’è un taglio sbieco o una ricerca tessile.
Eppure, hanno un potere mediatico superiore a chi dedica una vita all’artigianato.
È la vittoria del nulla mediatico: la competenza annullata dalla popolarità.
Un fenomeno così assurdo da diventare paradigma culturale.
Come conferma Vogue Business, oltre il 68% dei brand oggi sceglie testimonial non per coerenza estetica, ma per “potenziale di reach”.
Cioè: per quanti click porta, non per cosa rappresenta.
Così la moda non scopre talenti, li assume in franchising.
Crisi d’identità e dissoluzione del pensiero estetico
La moda contemporanea non ha più un linguaggio. È un collage di riferimenti vuoti: citazioni senza radici, concetti travestiti da tendenza.
Oggi non vince chi pensa, ma chi grida. L’originalità è stata sostituita dalla saturazione.
Un tempo, un abito era una dichiarazione politica. Ora è un accessorio dell’ego.
Non è più simbolo, è distrazione. Non crea immaginari, li consuma.
E in questa confusione, anche la parola “bellezza” ha perso peso specifico: è diventata neutra, indifferente, priva di resistenza.
Ritorno all’uomo
La moda tornerà viva solo quando l’uomo tornerà al centro.
Con i suoi limiti, la sua fatica, la sua umanità. Solo chi sbaglia può creare qualcosa che respiri.
Serve un’estetica della presenza, non della perfezione. Un pensiero che abbia ancora il coraggio di essere scomodo, incoerente, vulnerabile.
Bisogna ribellarsi al dogma dell’ottimizzazione, al marketing che traveste la schiavitù da libertà.
Il futuro della moda non è nell’AI né nelle visualizzazioni: è nella capacità di ricucire senso, anche quando il tessuto è logoro.
Epilogo: il sistema lo sa
Nessuno può dire “non lo sapevamo”.
Ogni scelta di marketing, ogni testimonial insensato, ogni collezione senz’anima è una decisione presa con piena coscienza.
Non è superficialità, è strategia. Non è perdita di senso, è calcolo.
Il profitto ha sostituito il pensiero come unico criterio di verità.
E quando il vuoto diventa valore, la mediocrità si trasforma in linguaggio universale.
I marchi lo sanno, e continuano. Perché il rumore funziona. Perché il silenzio non monetizza.
La moda non è più un campo di visione: è un algoritmo che moltiplica se stesso.
Non si tratta più di salvarla, ma di smascherarla.
Perché la verità è semplice e violenta: la moda non è morta, si è venduta.











