Editoriale di: Gabriele Vinciguerra
C’è una linea sottile tra arte e artificio.
E oggi, la moda sembra camminarci sopra con il passo incerto di chi non sa più se deve commuovere o scandalizzare.
L’ultima sfilata Jean Paul Gaultier RTW SS26 “Junior”, diretta da Duran Lantink, ha portato in passerella un corpo maschile stampato come fosse nudo, con peli, ombre e organi riprodotti digitalmente su una tuta color carne. Nessuna nudità reale, ma un gioco di percezione. Un trompe-l’œil che finge il corpo per mostrarci quanto il corpo stesso sia diventato un simulacro.
L’intento è concettuale, certo: una riflessione sulla pelle come confine tra ciò che siamo e ciò che mostriamo.
Eppure, qualcosa non torna.
Il messaggio visivo, in passerella, è potente. Ma fuori da quel contesto, sui social, si svuota.
L’utente non legge, non interpreta, non medita: scrolla.
E così il senso critico evapora, il pensiero si disintegra, e resta solo l’immagine.
Un tempo la moda era linguaggio, oggi è algoritmo.
La sfilata, storicamente, non nasce per vendere abiti, ma idee.
È il luogo dove il designer prende parola e dichiara la propria visione del mondo.
Negli anni Ottanta e Novanta, Gaultier, Mugler, McQueen o Margiela usavano il corpo come campo di battaglia simbolico.
Non cercavano consenso, cercavano rivelazione.
Il nudo non era erotismo, era discorso.
McQueen mostrava la violenza che il mondo esercita sulle donne; Margiela cancellava il volto per restituire umanità all’essere; Gaultier metteva l’uomo in corsetto per sfidare il patriarcato estetico.
Oggi, quel linguaggio si è frammentato.
L’intellettuale della moda è stato sostituito dal creatore d’immagine.
Il couturier che costruiva senso è diventato storyteller.
E il pensiero, a poco a poco, si è dissolto nel marketing dell’immediatezza.
Tu lo avverti, e hai ragione: il pubblico non ha più gli strumenti per leggere i messaggi che la moda lancia.
Questi gesti, nati per provocare riflessione, finiscono per diventare solo provocazioni senza destinatario.
È come se la moda parlasse un linguaggio che nessuno comprende più, tranne se stessa.
Eppure, l’obiettivo originario era un altro: tradurre il tempo.
Raccontare l’anima di un’epoca, il suo disagio, la sua evoluzione.
Quando un vestito smette di raccontare l’essere umano, allora non è più moda: è estetica decorativa.
Il grande stilista, il vero artista, sa ancora trasformare il concetto in emozione, e l’emozione in cultura.
Ma oggi, paradossalmente, l’attenzione mediatica si è spostata altrove.
Verso personaggi che non hanno alcun background stilistico, ma che siedono alla guida di maison storiche come Louboutin o Louis Vuitton.
Influencer, musicisti, volti noti dei social diventati “direttori creativi” di marchi miliardari.
È evoluzione o regressione?
Forse entrambe.
È l’evoluzione di un’epoca che confonde la visibilità con la visione.
Dove la cultura del pensiero è stata sostituita dalla cultura del contenuto.
In cui basta avere una community per essere considerati “creativi”.
Ma è anche la regressione di un’arte che, per restare viva, ha bisogno di chi la abiti con consapevolezza.
La psicologia ci insegna che l’identità nasce dallo specchio.
E se lo specchio oggi è lo schermo, allora ciò che vediamo riflette più la nostra illusione che la nostra verità.
Il corpo diventa superficie comunicante, l’abito un filtro, e la moda un linguaggio che rischia di parlare solo a se stessa.
Non c’è volgarità nel corpo nudo.
C’è volgarità quando un gesto perde il suo significato e resta solo il clamore.
E la vera sfida, per chi fa moda o la racconta, è restituire spessore al simbolo, senso al gesto, umanità alla forma.
Perché la moda non è un grido.
È una lingua.
E chi la parla davvero, non ha bisogno di urlare per farsi capire.