Articolo di: Gabriele Vinciguerra
“In questa rubrica raccontiamo l’invisibile: ciò che la moda non dice, ma lascia intuire. Parole per vedere sotto la superficie.”
C’è un uomo che lavora in silenzio.
Non in un grattacielo, non in un atelier luccicante, ma in un laboratorio nel nord-est d’Italia dove il tempo ha imparato a rallentare.
Si chiama Geoffrey B. Small.
E non disegna vestiti.
Cuce coscienze.
A volte mi chiedo dove sia finita la bellezza che non ha paura di sporcarsi.
Quella che non si trucca per piacere, ma si espone per dire.
Geoffrey non vuole piacere.
Vuole svegliare.
E lo fa senza slogan, senza pose, senza bisogno di like.
Lo fa come si prega: con le mani che tremano, ma non tradiscono.
I suoi abiti non parlano di moda.
Parlano di noi.
Di come siamo stati addestrati a consumare identità.
Di come abbiamo dimenticato che anche un vestito può essere un gesto politico, un atto d’amore, una scelta morale.
Nei suoi capi non c’è solo tessuto.
C’è lentezza.
C’è memoria.
C’è dignità.
Ogni giacca porta dentro il peso di un tempo che oggi viene considerato inutile: il tempo del fare bene, del fare giusto, del fare umano.
Chi lo conosce lo sa: non è solo un artigiano, è un dissidente.
Non un ribelle arrabbiato.
Uno che ha fatto pace con la sua scelta di stare fuori.
Fuori dai ritmi, fuori dai compromessi, fuori da quel rumore sterile che chiamiamo tendenza.
Ma dentro, profondamente dentro, alla materia vera del vivere.
L’ho osservato.
Mette insieme pezzi dimenticati, bottoni che non sono mai identici, tessuti che portano le cicatrici del tempo.
E mi è sembrato di vedere l’anatomia di un’anima.
Lui non cuce.
Ricompone.
Come se ogni punto fosse una risposta al vuoto.
Chi indossa i suoi abiti non lo fa per farsi vedere.
Lo fa per ricordarsi chi è.
O chi potrebbe essere, se smettesse di inseguire l’approvazione e iniziasse a cercare il senso.
La verità è che Geoffrey non crea collezioni.
Crea domande.
Cosa scegli quando ti vesti?
Chi sostieni?
Chi ignori?
Chi sei quando nessuno ti guarda?
In un’epoca dove i vestiti cambiano più in fretta delle idee, lui resta.
Fedele.
Ossessivo.
Poetico.
E per questo scomodo.
Perché non si può ridurre a un post, non si può impacchettare nel linguaggio da ufficio stampa.
È fuori scala.
Fuori moda.
Fuori dal sistema.
E proprio per questo necessario.
Geoffrey è uno che guarda il mondo da dentro, e per questo se ne tiene lontano.
Non perché lo disprezza.
Perché lo ama troppo per accettarne la deriva.
Il suo laboratorio è un santuario.
Ci sono voci basse, aghi che entrano lenti, tessuti che raccontano di mani passate, di luoghi dimenticati, di un tempo in cui le cose duravano.
Ogni abito nasce come si nasce da una ferita: piano, con rispetto, senza fretta.
A chi mi chiede che senso ha parlare di moda oggi, io rispondo così:
ha senso se parliamo di Geoffrey.
Perché in lui la moda torna ad essere ciò che dovrebbe: un linguaggio, non un rumore.
Un modo per stare al mondo, non per scappare da sé.
La sua etica non è una strategia.
È una pelle.
E chi lo segue lo sa: quando indossi Geoffrey, stai dichiarando qualcosa.
Non sei parte di un brand.
Sei parte di un pensiero.
Io non so se salverà il mondo.
Ma so che chi lo incontra, smette di guardare ai vestiti come prima.
Smette di vestirsi per sembrare.
Inizia a vestirsi per essere.
E questo, oggi, è l’atto più raro che ci sia.

















