Articolo di: Gabriele Vinciguerra
Ci sono leggende che sembrano scolpite nel metallo, eppure battono come cuori fragili. Ozzy Osbourne non era soltanto un’icona dell’heavy metal. Era una fiamma che bruciava da dentro. Una contraddizione vivente. Un uomo che ha sfidato la morte così tante volte da farle perdere la pazienza. E adesso che se n’è andato davvero, nel silenzio di un letto e non nel boato di un palco, resta solo da domandarsi: era pronto lui o siamo noi a non esserlo mai?
John Michael Osbourne nasce a Birmingham nel 1948, in una casa così piccola che per fuggire bastava chiudere gli occhi. Da bambino balbettava e portava occhiali troppo grandi, aveva già il soprannome Ozzy cucito addosso come un’etichetta sociale da cui fuggire e allo stesso tempo rifugiarsi. La scuola era un carcere, ma la musica una fuga. Non leggeva note, ma sapeva ascoltare il caos. E da quel caos ha tratto un’armonia disturbante, viscerale, indimenticabile.
Era il 1969 quando con i Black Sabbath ha cambiato per sempre la percezione del suono. Non era solo una questione di riff cupi o testi esoterici. Era qualcosa di più profondo. Il loro primo album uscì un venerdì 13. Sulla copertina, un mulino spettrale e un’atmosfera da film horror. Dentro, una voce che sembrava strappata dall’inferno e restituita con dolcezza. Quella voce era la sua. Imperfetta, ma vera. Senza compromessi. Una preghiera stonata che sapeva di dannazione e speranza.
Ozzy non era soltanto un frontman. Era una performance vivente. Mordeva pipistrelli sul palco. Si presentava con croci, fumi e occhi spiritati. Ma dietro il trucco c’era un uomo spaventato dalla vita. Dipendente da tutto: alcol, droga, successo, dipendenze emotive. La sua mente era un castello gotico pieno di finestre rotte. Ma dentro quelle stanze, c’erano canzoni che non smettevano di parlare. A chi aveva paura. A chi non si sentiva normale. A chi cercava risposte nel buio.
Pochi sanno che Ozzy ha tentato il suicidio da giovane. Che è stato arrestato per furto prima di diventare famoso. Che nel 1989 provò a strangolare sua moglie Sharon durante un blackout psicotico causato dai farmaci. Fu lei a salvarlo più volte. Ma è stata anche lei, spesso, a tirarlo fuori dal fango emotivo in cui lui stesso si gettava.
Eppure, nel suo personale inferno, Ozzy ha saputo essere un padre amorevole, un marito devoto, un uomo tenero. I suoi figli parlano di lui come di un gigante vulnerabile. Jack lo definì una volta “il mio supereroe ubriaco”. Ma erano le sue lacrime in diretta tv a raccontare l’umanità di un uomo che aveva toccato il cielo con la voce e l’inferno con le ginocchia.
La sua carriera solista è stata un’altra rivoluzione. “Crazy Train”, “Mr. Crowley”, “No More Tears”. Titoli che sembrano capitoli di un’autobiografia mai scritta, ma suonata. I suoi musicisti erano leggende, da Randy Rhoads a Zakk Wylde. Ogni album era una confessione sotto distorsione, un’esplosione di sincerità amplificata.
Ozzy è stato anche un antesignano del reality. “The Osbournes”, su MTV, ha mostrato la sua quotidianità sgangherata, fragile, divertente, vera. Il mondo lo ha visto inciampare, bestemmiare, abbracciare, dormire sui divani, coccolare i cani e piangere per amore. Quel programma ha tolto la maschera a un mostro sacro e ha mostrato un padre con il pigiama troppo largo e i pensieri troppo grandi.
Negli ultimi anni, il Parkinson lo aveva messo all’angolo. Ma lui, come sempre, ci ha riso sopra. Ha continuato a incidere, a lottare, a cantare anche con la voce rotta. L’ultimo live a Birmingham, la sua città, è stato il congedo definitivo. I fan piangevano. Lui sorrideva. Sembrava che anche il tempo si fosse fermato per guardarlo per un’ultima volta.
Ozzy Osbourne non era solo un cantante. Era un profeta stonato, un poeta della disfunzione, un uomo che ha fatto dell’eccesso la sua forma d’arte. Ha vissuto come pochi. Ha sofferto come tanti. E ha insegnato, senza pretenderlo, che si può brillare anche nell’oscurità. Che il dolore può diventare spettacolo. Che la follia può diventare bellezza.
Oggi se ne va il corpo. Ma resta la voce. Quel timbro graffiato, tenero, maledetto e indimenticabile. Restano le note. Le parole. Le urla. I silenzi. Restano le corse sul palco, le cadute, le risate, le confessioni sussurrate e i riff che facevano tremare le vene.
Ozzy era il re del disastro, ma anche il principe dell’autenticità. Non si è mai nascosto. Ha vissuto a nudo. Sporco, vero, umano. E ora che il sipario è sceso davvero, resta soltanto da applaudire. A lungo. A occhi chiusi. Con rispetto. E un po’ di lacrime.
Perché certe leggende non muoiono. Si scolano. Si urlano. Si ricordano a memoria.
E ogni volta che parte una sua canzone, da qualche parte, nel profondo,
una parte di noi risorge con lui.











