Editoriale di: Gabriele vinciguerra
(n.d.r.)
Ultimamente si parla molto — spesso a vuoto — di psicologia del lavoro.
Si riempiono slide e convegni di parole come “benessere organizzativo”, “leadership empatica”, “clima aziendale”.
Ma tra il dire e il fare c’è un oceano di ipocrisia.
Perché integrare davvero una figura psicologica all’interno delle aziende significa mettere in discussione l’intera struttura di potere, e questo fa paura.
In questo editoriale ho voluto fare uno spaccato lucido, crudo, reale, di una tra le tante realtà professionali, dove il merito non guida, dove l’effetto Dunning-Kruger fa da standard e dove il silenzio ha più valore del pensiero critico.
Parlare di psicologia del lavoro non può ridursi a una moda LinkedIn.
Significa affrontare la complessità, le dinamiche invisibili, le disfunzioni sistemiche che troppe aziende ignorano.
Per volontà.
Per comodità.
O, peggio ancora, per convenienza.
Questo articolo non è un atto di accusa.
È una radiografia.
E chi si riconosce, che sia sotto o sopra, ha ora il dovere di scegliere se continuare a far finta di nulla.
Oppure iniziare, finalmente, a cambiare davvero.
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C’è un virus che non trovi nei report di fine anno.
Non compare nei KPI (Key Performance Indicator, o Indicatore Chiave di Prestazione), né nelle presentazioni PowerPoint.
Eppure lo senti ogni giorno: nelle pause pranzo silenziose, nei sorrisi forzati, nelle dimissioni mai annunciate ma già vissute.
È la promozione dell’incompetenza.
Succede ogni giorno, ovunque.
Non per sbaglio.
Perché conviene.
Perché non disturba.
Perché chi comanda ha bisogno di qualcuno che esegua, non che pensi.
E così si crea un sistema che non premia il merito, ma l’obbedienza. Non valorizza la competenza, ma la compiacenza.
Chi è mediocre, sale.
Chi è brillante, si piega o se ne va.
Chi ha visione, viene zittito.
Chi non ha strumenti, ma ha contatti, riceve deleghe, ruoli, autorità.
Il centro commerciale: il punto in cui tutto si vede
Ho scelto di partire da lì.
Non perché sia il punto più basso.
Ma perché è il più esposto.
Il centro commerciale è la prima interfaccia tra azienda e cittadino.
Ci vai per fare la spesa, comprare un paio di scarpe, bere un caffè.
Ma se guardi bene, vedi altro:
vedi reparti gestiti da chi non sa, ma decide.
Vedi dipendenti che portano avanti interi settori mentre chi dovrebbe guidarli è altrove, spesso a giocare a fare il capo.
Il problema è che questo scenario non è un’eccezione.
È un modello.
Replicato nelle grandi aziende, nei team dirigenziali, nei consigli d’amministrazione.
Il danno è organizzativo. Ma prima di tutto, è umano.
C’è chi ogni giorno si sveglia, entra in reparto, sistema, guida, forma.
E poi guarda chi è sopra di lui e si chiede:
“Ma davvero è questo il premio? Davvero basta sapere a chi sorridere per salire?”
Sai cosa succede dopo un po’?
Succede che la motivazione muore.
Che il talento si chiude.
Che le idee si tacciono.
E l’azienda, quella vera, quella fatta di mani, voci e intuizioni,
comincia a marcire dentro.
L’effetto Dunning-Kruger: il veleno travestito da sicurezza
In psicologia si chiama effetto Dunning-Kruger:
chi sa poco, tende a sopravvalutarsi.
Chi sa davvero, tende a dubitare.
È così che manager impreparati si convincono di essere leader.
Che figure insicure si rifugiano nella gerarchia per non dover ammettere i propri limiti.
E che l’organizzazione viene dominata da chi urla più forte, non da chi ha più chiaro il quadro.
Questo effetto crea una bolla:
chi è in alto vive nella propria autoillusione.
E chi è in basso, se prova a rompere quella bolla, viene etichettato come “difficile”, “ribelle”, “non allineato”.
Le aziende non falliscono per colpa del mercato
Falliscono perché chi decide preferisce promuovere il prevedibile anziché il competente.
Falliscono perché nessuno ha il coraggio di fermare il declino.
Falliscono perché le figure chiave sono state scelte per fedeltà, non per visione.
E quando serve agire, non sanno dove mettere le mani.
Il problema non è solo chi è inadatto.
Il problema vero è chi sapeva… e ha scelto di promuoverlo lo stesso.
Per interesse.
Per quieto vivere.
Per incapacità di assumersi la responsabilità delle proprie scelte.
Chi guarda e tace è parte del disastro
Se lavori in un posto dove vedi l’incompetenza salire e il valore affondare,
e resti zitto, sei complice.
Non esiste neutralità quando il danno è evidente.
Esiste solo vigliaccheria in giacca e cravatta.
Ogni ruolo dato senza criterio.
Ogni incarico assegnato a chi non lo merita.
Ogni promozione che serve solo a consolidare un potere sterile…
è un colpo al cuore dell’impresa.
Il pensiero finale. Quello che non puoi ignorare.
Perché vedi, il problema non è l’incompetente che comanda.
Il vero veleno è chi lo ha messo lì, e se ne frega.
Chi firma promozioni come fossero cambiali tra amici.
Chi protegge la mediocrità come se fosse un valore da custodire.
E chi, dopo tutto questo, ha ancora il coraggio di parlare di “team”, di “visione”, di “valori”.
E intanto i migliori si spengono.
O scappano.
O smettono di provarci.
E allora sì, diciamolo senza giri di parole:
le aziende non falliscono per concorrenza.
Falliscono perché i peggiori non hanno paura di salire…
e i migliori, a furia di essere calpestati,
iniziano a dubitare persino di sé stessi.
Questo, nessun piano strategico lo salva.
Perché quando muore il senso,
resta solo un’azienda che respira.
Ma non vive più.