Articolo di: Gabriele Vinciguerra
C’è una musica che si ascolta. E una musica che si sente. Poi c’è quella che ti attraversa come una vertigine, e senza chiedere il permesso, si piazza lì: tra lo sterno e l’anima.
Vinicio Simonetti appartiene a quest’ultima categoria. Non suona, evoca. Non canta, traduce. È uno di quegli artisti rari che non cercano l’applauso, ma il tremore. E se qualcuno non lo capisce subito, va bene così: non ha mai scritto per piacere, ha sempre scritto per necessità.
Cantautore, polistrumentista, artigiano del suono: ogni suo brano è un piccolo rito laico, dove il funk, il folk, il rock e il blues non si mettono in fila, ma si intrecciano in una grammatica emotiva del tutto personale.
Il suo modo di fare musica non è mai imitazione, ma rivelazione. Come se ogni nota fosse un pezzo di qualcosa che ci eravamo dimenticati di sentire.
In un’epoca che corre dietro alla viralità, Vinicio rallenta. Si fa spazio con la sincerità cruda delle sue parole, con l’eleganza ruvida di chi non ha paura di scavarsi dentro. E di portare fuori tutto, anche quello che fa male.
In questa intervista, non troverete strategie di marketing né verità già pronte. Troverete un uomo che pensa, che sente, che scrive. E che, sopra ogni cosa, resta fedele a sé stesso.
Anche quando costa. Anche quando brucia. Anche quando nessuno guarda.
Cosa temi accada il giorno in cui smetterai di avere qualcosa da dire con la musica?
“Non come artista, ma come uomo.”
C’è chi dice che la musica sia la più regale tra le arti. Forse perché non si limita a descrivere: attraversa. E attraversandoti, ti rende interprete di qualcosa che non ti appartiene del tutto.
Ecco perché ho sempre sentito il dovere, più che il desiderio di studiarla, per ampliare il lessico con cui raccontarmi, non per controllarla.
Se un giorno quella scintilla dovesse spegnersi, non so più dove mi collocherei. Dovrei imparare una lingua nuova. Riscoprire un’altra voce. E trovare da capo il mio posto nel tutto.
Quando suoni da solo, davvero da solo, per chi lo fai? Chi immagini dall’altra parte del silenzio?
I pomeriggi nel mio bilocale sono pieni di improvvisazioni nate da intuizioni notturne. Frammenti vocali registrati prima di addormentarmi, o idee affiorate appena sveglio, come sogni che si rifiutano di svanire.
Quando le suono, sento le presenze che mi hanno segnato.
Una persona che mi ha spinto a prendere in mano la chitarra. Una con cui ho condiviso un frammento d’anima. Una che mi ha mostrato cosa significa davvero fare il DJ.
Suono anche per loro. Anche se non ci sono più.
Hai mai avuto la sensazione che una parte di te si stia consumando a ogni canzone? Quale parte, esattamente?
Non so se ho la maturità per rispondere fino in fondo, ma sento il cuore di questa domanda.
Negli ultimi tempi, invece di correre a fermare ogni ispirazione, la lascio andare. La lascio nell’aria, nell’etere.
Forse è un modo per proteggere qualcosa di me. Non so ancora bene cosa. Ma so che c’è.
Cosa nascondi nei tuoi testi che nemmeno le persone più vicine a te riescono a cogliere?
Un bisogno che non riesco a zittire: parlare dell’oltre.
Non solo della vita, ma della sua ombra.
La nostra mortalità, il senso profondo del nostro stare al mondo. Le emozioni che ci assalgono quando guardiamo il vuoto negli occhi e ci chiediamo: e poi?
Qual è la ferita che torna più spesso tra le righe delle tue canzoni, anche quando pensavi di averla guarita?
Una ferita è viva se sanguina. E sanguina solo chi è vivo.
Mi sento vivo ogni volta che penso di poter insegnare ad amare a chi non sa farlo con se stesso.
Forse è lì che torna sempre quella ferita. Dove l’amore manca, e io provo a rimetterlo al suo posto.
Se la tua voce potesse parlare al posto tuo in un momento in cui tu non ci riesci, cosa direbbe?
Direbbe: “Tu non hai idea di cosa sono capace.”
E siccome non lo urlo, lo dimostro.
C’è un ricordo che non riesci a scrivere, eppure continua a suonare dentro di te?
Scrivo tutto ciò che mi ha dato qualcosa.
Chi mi conosce lo sa, qualcuno forse lo intuisce, altri lo sentono senza dubbi.
Ma ho iniziato a scrivere tardi.
Prima ci sono stati momenti che sono rimasti muti, senza inchiostro, ma vivi. Hanno preso forma in ciò che sono diventato. Silenzi diventati pelle.
Hai mai pensato che alcune note che componi vengano da un luogo che non ti appartiene completamente? Un luogo che ti attraversa più che ti appartiene?
Ne sono certo.
Un brano è molto più di un’idea: è vibrazione, energia, atmosfera, frequenza.
È un corpo celeste che si manifesta attraverso le mani di un pianista, l’orecchio di un producer, il battito di un percussionista.
No, non appartiene a me. Mi attraversa. E basta.
Nel caos dell’essere ascoltati, capita mai di sentirti profondamente solo?
Sì. Capita.
Perché non è facile trovare qualcuno che sappia davvero andare oltre.
Ma ho la fortuna di avere accanto persone rare.
Dalla mia famiglia, fino a quelle poche, vere amicizie che ti guardano e ti capiscono anche quando stai zitto.
E se un giorno nessuno ti ascoltasse più, continueresti a scrivere lo stesso? Per chi? Per cosa?
Già ora mi ascoltano in pochi, quindi la risposta ce l’ho già.
Il mio primo album è uscito nel 2019, e ha avuto la sua attenzione.
Poi è arrivato il secondo, durante il lockdown: un EP che è passato quasi in silenzio.
Il terzo, Messi al mondo, è rimasto in gran parte nelle scatole, vinili ancora imballati.
Il quarto, Gemini, lo hanno ascoltato dal vivo solo pochi. Forse non uscirà mai online.
Ma continuo.
Per me. Per chi vibra con me.
Proprio stasera, qualcuno mi ha detto che ha sentito i brividi ascoltando Gemini.
E io, quei brividi, li sento ogni volta che azzecco una nota.
E allora sì, continuo.
Foto di: Alessio Di Buò – Barbara Tanucci














